Secondo Barnum che ri-propongo su sutradeloto.
Cosa sono i barnum l’ho già spiegato nell’introduzione al post che ho pubblicato su questo blog – Amori sul pianeta Fininvest.
Riporto.
E’ un libro. Si chiama Barnum – Cronache dal Grande Show, era, e credo sia ancora, edito da Feltrinelli in Universale Economica. Si tratta di una raccolta di scritti che Alessandro Baricco firmava settimanalmente sulla Stampa, curata da lui stesso. L’arco temporale è quello che va dal 1993 al 1995 [leggi tutto]
Quella che segue è una riflessione, scritta più di quindici anni fa, con cui Baricco si lancia nella pagina più spinosa d’occidente, lo sterminio nazista (del popolo ebraico).
Da narratore Baricco usa per questa complicata immersione l’appiglio di un libro e di un film entrambi famosi. Il risultato è notevole. Le linee in cui si sviluppa il discorso offrono spunti preziosi a chi legge.
Ho usato una parafrasi –lo sterminio nazista (del popolo ebraico)- perché già la parola con cui parlare della faccenda è questione spinosa in sé. Era il 1995 circa quando Baricco scriveva questo articolo e poteva usare la parola Olocausto, per riferirsi al terribile fatto storico. Nell’articolo appare una volta soltanto la parola Shoà e appare citata da Roth, cioè da un ebreo.
Un ricordo personale: io fin da piccolo sapevo che mio nonno era morto nell’Olocausto. Perché Olocausto era (era diventato) un termine senza confini o discriminanti semantiche particolari. Nell’Olocausto c’erano morti ebrei e non ebrei. Questo era l’utilizzo comune della parola. Nell’Olocausto i nazisti avevano ammazzato e bruciato Ebrei, Comunisti, Testimoni di Geova, Omosessuali, Democratici, Sindacalisti, Zingari, Slavi… e troppi altri. Questo era sapere comune.
Adesso sono nel vento come dice una canzone. E il vento non fa certo distinzioni semantiche.
Ancora nel 1995 nessuno bacchettava Baricco per l’uso di questa parola. In seguito -ma non so in quale anno- la comunità ebraica internazionale ha chiesto, e ottenuto, l’utilizzo della parola Shoà al posto di Olocausto.
Nel mio amato Zingarelli dell’anno 1984 (ottimo anno per comprare un vocabolario ne converrete), alla voce Olocausto leggo: Olocàusto: [vc. dotta, lat. tardo holocaustu(m), dal gr. holokauston ‘cosa completamente bruciata’, comp. di holos (V. olo-) e kaustos (V. caustico)] A s. m. 1 Nella liturgia ebraica antica, sacrificio levitico nel quale la vittima era arsa completamente 2 est. Sacrificio totale, completo, anche di se stesso: fare – della propria vita; offrirsi in – , B agg. – lett. Offerto come vittima di un totale sacrificio.
Mentre la parola Shoà nemmeno compare nello Zingarelli del 1984. [Strano però che la voce Olocausto su questo vocabolario ignori il significato in questione. Non me ne ero mai accorto prima d’ora. Strano. In un vocabolario in cui non compare nemmeno un sinonimo… Mah, forse è arrivato il momento di comprarne uno nuovo!]
La parola Olocausto ha un significato spostato sul sacrificio volontario. Il termine Shoà significa invece distruzione e non c’è nessun riferimento alla volontarietà. Quindi è più esatta. Ed è pure una parola che deriva dall’ebraico. Non ha una derivazione latina e greca.
Questo però rende un po’ esclusiva la questione: genocidio nazista durante la seconda guerra mondiale. Senza contare che la parola Olocausto era ormai estesa a tutti i genocidi. Ad esempio viene usata anche per il genocidio di due milioni e mezzo di cristiani in Turchia avvenuto nel 1915.
Intendiamoci non c’è nessun ebreo, nemmeno il più sfegatato sionista, che neghi lo sterminio dei non ebrei. Per contro adesso si moltiplicano gli imbecilli antisemiti che preferiscono negare l’Olocausto o la Shoà che dir si voglia.
Revisionismo e negazionismo. Fino a non molto tempo fa c’erano individui, ripugnanti quanto si vuole, che affermavano la bontà degli stermini nazisti, senza nessuna necessità di negazione. Adesso, in un mondo dominato dal decoro pubblicitario, questo discorso può restare -inside- a gruppi nazi-fascisti, ma non è adatto al marketing. Un’ideologia che ha portato allo sterminio di sei milioni di ebrei e almeno altrettanti non ebrei, non è fashion, è indecorosa. C’è poco da fare. Per chi tenta un qualche rilancio d’immagine è necessario affermare, anche beceramente, che non è mai successo niente di tutto ciò. -Tanto se ne sentono dire tante di panzane-. Il negazionismo e il revisionismo sono pappa pronta per la medietà.
Che dire? Mi risulta difficile dire che ho un nonno vittima della Shoà. Quando lo dico in molti mi chiedono se era ebreo. Quando rispondo di no c’è chi resta un po’ perplesso. Come se l’unico modo per essere vittime di un genocidio fosse la discendenza ebraica. Ciò è pericoloso, ma non è un limite dei miei interlocutori, sono proprio il vocabolario e la memoria storica che sembrano definire questa cosa.
Io, che ritengo la memoria patrimonio universale, l’ho risolta così, quando mi domandano se era ebreo rispondo: prima o dopo la combustione?
La maggior parte capisce.
Gianni ::: 12 ottobre 2012 :::
::: Buona lettura :::
Roth, Spielberg e l’Olocausto
Se vi piace mettere il vostro cervello su insostenibili ottovolanti e la vostra coscienza in un frullatore, consiglio una micidiale accoppiata: Operazione Shylock, ultimo romanzo di Philip Roth e Schindler’s List, sette Oscar, l’ultimo Spielberg, quello diventato adulto. Da consumarsi uno dopo l’altro.
Roth ha scritto un romanzo che è una vertiginosa palude, proditoriamente fatta dilagare intorno a una voragine della coscienza, al triangolo delle Bermude di qualsiasi riflessione: la questione ebraica. Ci potete trovare di tutto, e tutto sotto la clausola dell’incorreggibile ambiguità. Gli stessi personaggi non sanno bene chi sono. Le idee si accavallano, equivalenti, hanno ragione tutti, non ha ragione nessuno. Parla il palestinese e stai con lui. Parla il sionista e stai con lui. Parla l’ebreo anti-israeliano e stai con lui. Chiunque parli, stai con lui. Una palude, dico. Con dei personaggi che fanno male. Cito testualmente: “Poi il 1967: la vittoria israeliana nella guerra dei sei giorni. E con questo la conferma, non della dealienizzazione, dell’assimilazione o della normalizzazione degli ebrei, ma della potenza degli ebrei: comincia la cinica istituzionalizzazione dell’Olocausto. E’ proprio qui, con uno stato militare ebraico vittorioso e giubilante, che la linea di condotta ufficiale degli ebrei diventa quella di ricordare al mondo, minuto per minuto, ora per ora, dalla mattina alla sera, che prima di essere stati dei conquistatori gli ebrei sono stati delle vittime e che sono dei conquistatori solo perché sono delle vittime “. Auschwitz come inattaccabile alibi per qualsiasi violenza e prevaricazione sociale e militare. Il grande businness dell’Olocausto, sfruttamento economico e ideologico dei sei milioni di vittime innocenti. Ne esce male perfino Anna Frank, librettino da nulla elevato a totem del complesso di colpa collettivo. Ci dà giù duro, Roth, e il fatto che in altre pagine dica esattamente il contrario, non significa nulla. In quelle pagine leggi quello, e il racconto di un giro per i territori occupati, a Gerusalemme, rende quelle parole anche più pesanti. Non è che proprio le dimentichi, quando giri pagina.
Io me le sono ricordate guardando sui giornali la pubblicità di Schindler’s List, coi suoi bei sette Oscar. “Non c’è nessun businness più grande della Shoà” (p. 136, nel libro di Roth). Sono andato e ho visto. Bel pugno nello stomaco, nonostante Hollywood che fa capolino qua e là, nonostante il brutto finale a colori, nonostante i cattivi racconti con la superficialità solita del cinema, nonostante il Schindler da fumetti Marvel, una spanna più alto degli altri, spalle da supereroe. Nonostante tutto. Un bel pugno nello stomaco. Esci e pensi: bello o brutto non importa: quello è un film necessario.
Coscienza nel frullatore e cervello a fare giri della morte. Roth o Spielberg? O tutt’e due?
Dato che non ho risposte, appunto due annotazioni.
Prima: ti vedi passare alla tivù e sui giornali la realtà, per mesi, per anni, poi a inchiodarti con una violenza tutta particolare sono un best seller e un film da Oscar.
Ancora una volta: a prescindere da cultura alta o bassa, è il racconto della realtà che t’incunea la realtà nella testa, e te la fa esplodere dentro. I fatti diventano tuoi o quando ti schiantano la vita, direttamente, o quando qualcuno te li compone in racconto e te li spedisce in testa. Che vuol anche dire: raccontare non è un vezzo da dandy colti, è una necessità civile che salva il reale da un’anestetizzata equivalenza. Il racconto, e non l’informazione, ti rende padrone della tua storia.
E poi. C’è qualcosa, in quella storia dell’Olocausto, e in generale nella questione ebraica, che trascende la verità dei fatti. Quella storia noi l’abbiamo scelta come storia totem, come simbolo, come dato mitico. Sei milioni di morti è una cifra pazzesca, ma come ricorda la frase del Talmud che gli ebrei di Schindler incidono nell’anello d’oro che gli regalano “Chi salva una vita salva il mondo intero”. Vale anche il contrario: in una vita che muore, muore il mondo intero. Sarebbe desolante se la gravità dell’orrore fosse solo una questione numerica. E allora perché l’Olocausto e non le pulizie etniche in Iugoslavia o gli eccidi africani? Perché gli ebrei e non il barbone brluciato sotto casa? Uno o sei milioni, l’orrore è lì.
Io non so. Ma viene da pensare che nella granitica resistenza che l’Olocausto oppone a qualsiasi spiegazione, e la questione ebraica a qualsiasi soluzione, crepiti l’antica ingiudicabilità del mito: ferita non rimarginabile, che non tramanda tanto qualcosa di veramente accaduto, ma il dolore accumulato per tutto il vero accaduto, in ogni dove.
Alessandro Baricco – Cronache dal Grande Show; Universale Economica Feltrinelli (1995)