“Una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici.”
K. Marx
La merce.
Tengo in mano una bottiglia di aceto, sapete di quelle a prezzo basso che si trovano adesso nei supermercati. Esiste tutta una linea di prodotti a basso costo che hanno tutti la stessa etichetta appositamente studiata per essere priva di ogni valore estetico. Anzi esteticamente un po’ ripugnante…
Per ogni categoria merceologica esiste un prodotto spogliato dalla sensualità dell’immagine e restituito nudo e inappetibile al mercato, ma a prezzo vertiginosamente basso se paragonato agli altri prodotti della stessa categoria. Esso non ha un nome proprio, quindi la varichina si chiama “varichina” e non si chiama (per dire) “Biancaneve”, il nome dei biscotti è: “biscotti” e cosi via. Come se il tuo cane si chiamasse “cane” e non Toby, Aldebrando, Mefistofele o che ne so io…
E’ una linea molto… triste, ma dotata di un fascino oscuro. E’ una merce post-feticista. Nel senso del post-, che non supera realmente qualcosa ma si posiziona di lato.
Io la chiamo “patto di Varsavia”.
Da un certo punto di vista è come se invece che entrare in camera tua una mistress dal corpo tirato e nervoso, capelli neri corvini, occhi penetranti, sguardo glaciale, lunghi stivali neri in pelle con tacchi a spillo, perizoma in latex e frustino in mano arrivasse invece tua zia che è appena rientrata dall’orto con gli stivali di gomma motosi e ti volesse prendere a ramazzate perché ti sei dimenticato di chiudere il rubinetto e le hai allagato i pomodori.
Hai voglia a dire che è uguale, non è la stessa cosa.
E’ per questo che sono falliti i paesi del così detto “socialismo reale”, perché la merce assomigliava tutta a tua zia che ti vuole prendere a ramazzate.
In questi paesi c’era, inoltre, il problema che quando uno sconosciuto suonava alla porta non si trattava del solito scocciatore intenzionato a rifilarti un pacco qualsiasi, ma di una autentica polizia politica segreta venuta a prelevarti per deportarti in qualche simpatico gulag siberiano nel nome del proletariato.
Insomma il socialismo reale era davvero scomodo.
Questo non significa che l’URSS e i paesi del blocco “socialista” fossero dei brutti posti. Anzi erano splendidi, bastava starsene altrove. Questo era il punto di vista degli stalinisti nostrani. Erano convintissimi che il socialismo reale fosse bello là dove era e per non sciuparlo era bene che rimanesse tutto lì.
Va detto che per più di uno di costoro (quasi tutti maschi) i paesi dell’est europeo erano Disneyland e siccome quando erano qua apparivano per quello che erano: dei grigi e polverosi funzionari di partito (non importa neanche quale), quando varcavano la cortina di ferro potevano assaporare il senso del privilegio che faceva di loro dei prestigiosi ospiti della nomenclatura e soprattutto potevano chiavare in cambio di poche merci che nell’occidente borghese e decadente non valevano un cazzo. [1]
Devo concentrarmi. La concentrazione è la premessa della meditazione. Se divago devo essere consapevole che sto divagando, e se non sto divagando devo essere consapevole che non sto divagando. L’acume è una questione di consapevolezza… e non c’è posto migliore del supermercato per meditare. Dico sul serio. Non sono nemmeno il primo a rendermene conto. Voglio dire, anche altri che se ne intendono di brutto…
Il supermarket è la zona chiara nel campo oscuro della produzione massiva delle merci. Il margine assoluto. E’ pieno di certezze e carezze della mamma. Il mondo si rispecchia qua dentro ma in forma gentile, morbida, seducente. Regna sovrana l’armonia mercantile; la tregua dai contrasti sociali, dalle spigolose differenze e dalle tensioni irrisolte del mondo esterno.
Qui, dove la merce viene scelta dagli uomini, è il luogo della pace, della fratellanza e dell’amore.
Ma appena varcata quella porta automatica la merce si trasforma in spazzatura e il consumatore viene sbattuto in una meschina battaglia di cui ignora cause, moventi e contorni.
Ma restiamo qua dentro. Respiriamo profondamente l’aria condizionata, ascoltiamo la musica diffusa in sottofondo. Ad ogni respiro l’aria entra ed esce più lentamente. Lasciamo che entri sempre più in profondità e immaginiamo che raggiunga ogni parte del nostro corpo. Così ad ogni respiro il corpo si rilassa e la mente si concentra. Sempre di più. Sempre più a fondo.
Gli occhi abbandonano ogni tensione, e sempre più sgombri dall’illusione vedono. Gli occhi hanno adesso la luce necessaria per riuscire a vedere.
Nel supermarket il “ranking”, la classifica sociale, è stratificata per ordine di scaffali. Quando tieni in mano un prodotto dell’ultima linea -quella gran risparmio- ti chiedi come hai fatto a cadere così in basso. Ti senti un depravato.
Ci sono però delle eccezioni. Prendiamo la varichina. La varichina è varichina qualsiasi cosa ci si possa scrivere sopra. Quale che sia la sua etichetta, il suo marketing, la pubblicità o l’idea che mi posso fare, quello è il contenuto. Così l’ammoniaca. Così tutti i prodotti che hanno un valore strettamente quantitativo. Quindi trovo anche un po’ ridicolo il consumatore che passando tra gli scaffali spende di più per un prodotto identico.
Questo è un margine; il margine quantitativo della merce e una volta raggiunto il margine si ha una inversione. In questo caso il prodotto che ha il maggior valore “qualitativo” è quello che ha il minor prezzo quantitativo.
Dicevo la gerarchia è ordinata per scaffali, sì, ma non in ordine crescente dal basso verso l’alto. Piuttosto secondo una gaussiana. L’importanza è massima all’altezza degli occhi del consumatore, per poi decadere verso l’alto e verso il basso. [2]
Così come ogni virtuoso deve coltivare almeno qualche depravazione affinché il suo mondo non si ribalti interamente nel vizio, ogni consumatore prestigioso compra almeno un prodotto dozzinale con la giustificazione che di quel prodotto basta la presenza. In realtà esso è la sua trasgressione.
In generale trovo la linea “gran risparmio” (alias “patto di Varsavia”) affascinante perché è come se rappresentasse un doppio di tutte le categorie merceologiche. Il doppio povero del consumo. Il fratello ipodotato. La linea vintage filo-sovietica in epoca post-moderna…
In URSS non ci sono mai stato, il mio contatto diretto con la realtà dei paesi dell’est è stato il primo viaggio a Praga nel 1992 poco dopo la caduta dei regimi del blocco sovietico. Praga era la capitale della Cecoslovacchia e in quel momento di passaggio era un luogo pieno di contraddizioni di ogni tipo, anche estetiche.
Giravano per le strade della città soldati russi un po’ sbandati, nell’indifferenza generale; avevano l’aria poco raccomandabile, spesso erano ubriachi. L’atmosfera era surreale, si respirava più nervosismo e incertezza che entusiasmo, contrariamente a quanto ci veniva raccontato.
Mi piaceva la metropolitana, era bella, ben tenuta e soprattutto gratis.
Accanto ai nuovi negozi del centro delle catene internazionali come Nike, Adidas ecc uguali ad ogni altro negozio della stessa catena in ogni altra capitale europea, c’erano ancora negozi in perfetto stile socialismo reale, anch’essi m’immaginavo perfettamente identici ad altri negozi in qualsiasi altra capitale dell’ex patto di Varsavia.
Mi ipnotizzavano.
Ero capace di restare a guardarli per periodi lunghissimi e non riuscivo a capire cosa mi affascinava. Non la merce, casomai la sua assenza.
Esibivano vetrine spoglie, ma in modo del tutto particolare. C’erano pochi prodotti e ogni negozio li metteva in mostra.
Dentro la stessa vetrina venivano esposti: una scatola di biscotti, un paio di scarpe, dei cacciaviti e qualche altro oggetto insulso. In mezzo ad ogni prodotto c’era un vuoto talmente vuoto che non meritava neanche di essere decifrato. Di solito erano polverosi. Ricordavano sentinelle che avessero atteso il tempo della decadenza del sistema che li aveva prodotti e, perfettamente consapevoli che quel tempo era stato già raggiunto e ampiamente superato, non avessero più nemmeno un falso scopo da ostentare. Una volta dovevano essere state sentinelle patetiche e presuntuose. Adesso erano solo patetiche.
L’equivalenza di ogni negozio cecoslovacco con ogni altro negozio cecoslovacco e di questo con ogni altro negozio nell’est europeo ricordava quella di ogni negozio occidentale con altri negozi occidentali, ma in modo inverso. Era il mondo visto al contrario.
Le merci del patto di Varsavia non assomigliavano alle merci di un mercato dei paesi poveri con economia tradizionale; erano merci moderne a tutti gli effetti, ma in un sistema privo dell’abbondanza mercantile.
Davano l’impressione di un bambino che avesse giocato a riprodurre qualcosa del mondo degli adulti.
Stavo osservando la merce nuda, e non vedevo il nudo della modella ritratta dall’artista oppure il nudo sensuale della pubblicità, bensì il nudo burocratico della visita per la leva militare.
Il Re non era nudo, ma i sudditi sì.
La linea “patto di Varsavia” del supermercato moderno parte da un movimento opposto rispetto alla vera merce del vero patto di Varsavia; essa non è merce scadente prodotta con la pretesa di essere di ottima qualità, ma è merce prodotta per essere palesemente scadente diminuendo tutto quello che può conferire qualità ad una merce, così da giustificarne il prezzo basso rispetto alle altre merci della stessa categoria e, con ciò, senza entrare in concorrenza con esse. Cioè: le merci del patto di Varsavia volevano assomigliare alle nostre, ma non ci riuscivano perché simulavano un “gioco” a cui non appartenevano. Invece le merci “patto di Varsavia” tendono al basso per differenziarsi dall’illusione qualitativa delle altre merci sugli scaffali. Fanno finta di essere fuori dal gioco.
In particolare: una merce per essere riconosciuta come qualitativamente infima deve rinunciare all’immagine ed a volte solo a quella. Tanto basta per esser della casta dei senza casta.
Essa è oscena, ma in un mondo che non esclude più niente dalla scena. [3]
Trovai per la prima volta questi prodotti low-cost in un supermercato occidentale qualche anno dopo, nel 1997 in Inghilterra, dove al cambio di allora erano quelli che maggiormente riempivano i carrelli degli italiani. Per inciso in quegli anni avevamo un elevato potere di acquisto in Italia e basso in Inghilterra. Tali prodotti non esistevano da noi. Allora per la prima volta mi venne in mente l’accostamento con le merci del patto di Varsavia.
Erano gli anni in cui ancora godevamo del beneficio economico di essere stati la vetrina del capitalismo. Eravamo stati l’erba del vicino che doveva essere sempre più verde.
L’Inghilterra invece era già stata digerita da un pezzo e lì si potevano osservare le evoluzioni post-blocchi: smantellamento dello stato sociale, aumento del costo della vita, divario della forbice della ricchezza, aumento vertiginoso del costo degli immobili, stagnazione o diminuzione dei salari e così via. Un operaio italiano allora era sostanzialmente più ricco di un operaio inglese.
Basta questo a spiegare il fascino del sub-valore? Non credo, esiste almeno un altro piano che ho appena sfiorato. Per descriverlo uso le parole dello scrittore polacco Witold Gombrowicz nella prefazione all’edizione francese del suo romanzo Pornografia. “L’uomo si sa tende all’assoluto. Alla pienezza. […] In Pornografia invece, secondo me viene fuori un altro scopo dell’uomo, uno scopo più segreto, e in un certo senso meno legale: il suo bisogno dell’Incompiutezza… dell’Imperfezione… dell’Inferiorità… della Gioventù…”
Se le vere merci del vero patto di Varsavia parevano merci orfane, quelle della linea “patto di Varsavia” hanno invece molti padri, perché, come dice un proverbio arabo: “la vittoria ha molti padri, solo la sconfitta è orfana”.
Le prime erano il segno di una sconfitta, mentre le seconde sono il segno di una vittoria talmente eccessiva da risultare ingombrante.
E se la merce “di punta”, quella costosa, può esercitare il fascino del vincitore, quando tieni in mano un prodotto “patto di Varsavia” ti senti un depravato, ma in un senso del tutto originale. Criptico.
Come nella fantomatica repubblica popolare di Kroda, dei fratelli Ruggeri (se la ricorda nessuno?) dove l’antigelo era ottimo anche come digestivo e la ferramenta era anche il Sexy Shop…
Così questa bottiglia di aceto che costa meno di una bottiglia vuota io la metto nel carrello. Non ci condirei niente, ma è ottimo per pulire le superfici.
Gianni Casalini
San Miniato 09/04/2012
[1] Non mi riferisco qui ai “neo-stalinisti” contemporanei, che sono generalmente soggetti affetti da quella che io chiamo la “nostalgia dei padri”. Siccome il discorso prenderebbe una piega psicologica superflua, mi limito a precisare che dopo la caduta dell’URSS non ci sono più stalinisti in Italia (ideologicamente orientati).
Fatta eccezione per qualche nostalgico residuale, si tratta piuttosto di giovincelli, o presunti tali, che interpretano il ruolo del comunista nell’immaginario televisivo. Ruolo che può essere solo: caricaturale, retorico, tronfio e, ovviamente, stalinista. Così che, tante le volte in qualche reality servisse un “comunista”, loro sono già pronti per il casting.
[2] Come si dice in Toscana: j’è tutto un dassela ad intendere. E’ bene considerare che i prodotti industriali ostentano una grande varietà di prezzo e d’apparenza, sebbene, in genere, siano tutti uguali. Per fare un esempio la quasi totalità di ciò che serve per lavare il corpo: saponi, shampoo e compagnia bella, altro non è che sodio laurilsolfato che viene “truccato” in vario modo con additivi, profumi ecc.
[3] “Nel 1967 distinguevo due forme, successive e antagonistiche, del potere spettacolare: quella concentrata e quella diffusa. Entrambe aleggiavano sulla società reale, come suo scopo e sua menzogna. La prima, mettendo in risalto l’ideologia riassunta intorno a una personalità dittatoriale, aveva accompagnato la controrivoluzione totalitaria, sia nazista che stalinista. L’altra, incitando i salariati a effettuare le loro scelte tra una grande varietà di merci nuove in competizione, aveva costituito quell’americanizzazione del mondo che per certi aspetti spaventava, ma soprattutto affascinava i Paesi in cui le condizioni delle democrazie borghesi di tipo tradizionale avevano potuto mantenersi più a lungo. Successivamente si è costituita una terza forma, attraverso la combinazione ragionata delle due precedenti, e sulla base generale di una vittoria di quella che si era mostrata più forte, la forma diffusa. Si tratta dello spettacolare integrato, che tende ormai a imporsi su scala mondiale.”
IV – Commentari sulla società dello spettacolo, Guy Debord (Parigi, 1988)