“La saggezza non arriverà mai.”
G. Debord
Non sarò certo il primo a dire queste cose….
Così l’immagine nell’epoca della terza dimensione dell’immagine (che poi è la quarta) esprime di nuovo il bisogno di essere incompleta, inesatta, frantumata. In definitiva –giovane-.
Così tutto ciò che raggiunge la maturità viene di nuovo attratto dal desiderio di Giovinezza.
Così la televisione stessa mentre estende l’HD a tutte le rappresentazioni del mondo trasuda il bisogno di incepparsi, di fermare la propria immagine, di sfocarsi, di saltare oltre, di spostarsi fuori sintonia, di mostrare righe verticali al pari di mutandine maliziose non più relegabili al ruolo di tessuto nascosto alla vista.
Così la rappresentazione perfetta ha bisogno di sgranarsi per divenire arte.
L’immagine man mano che si perfeziona sente il bisogno di degenerare per sfuggire alla perfezione assoluta della morte.
L’immagine vuole tornare a giocare con la propria merda.
Così accanto alla TV ritornano le lanterne magiche, gli spettacoli di burattini, le fontane luminose, i caleidoscopi e l’immagine si sporca, si scompone e dopo aver raddoppiato tutto senza decenza al servizio del padrone, si affretta nella propria decadenza… fugge in una corsa folle verso la purezza delle pitture rupestri, il sogno, il delirio astratto, il tratto sporco, opaco e vibrante dell’infanzia. Ritorna elemento di una serie infinita.
Allo stesso tempo è tutto falso, è tutto già contenuto nell’alta definizione di un videogioco. Così l’immagine che ha raddoppiato il mondo tenta di raddoppiare se stessa. Solo così potrebbe raggiungere la perfezione, ma come Icaro si ritrova senza ali a causa della vicinanza col sole e precipita.
E’ così, ogni impero desidera la propria distruzione e danza con essa fin dal principio.
Dentro un’altra serie, la TV può essere invece accostata per analogia alla coscienza che, anch’essa, mantiene una qualche centralità, pur essendo superata da ogni parte da ciò che cosciente non lo è affatto o lo è appena. E ci si può immaginare, senza troppo sforzo che il potere stesso spinga verso il limite della rappresentazione nel tentativo di produrre uno pseudo inconscio collettivo completamente artificiale.
Lo schermo è pieno.
Il consumo accelerato di suggestioni serve a rimandare la realizzazione dell’inconscio.
Un ruolo simile nei tempi antichi era svolto dalla parte più degenerata e vincolata al potere della religione. (Fra i vari motivi per cui sono nate le religioni c’è sicuramente anche quello di funzionare come oppiacei.)
Da questo punto di vista i media sono una religione semplificata. Un totemismo tecnologico applicato alla produzione di cattiva coscienza.
Attraverso il consumo di sequenze di immagini, di schemi e di ruoli lo spettatore prende coscienza di quali parti dell’inconscio è lecito far emergere e in che forma possono farlo.
La televisione da ordini in quanto fornisce la luce verde o rossa con cui blocchi interi del Sé iniziano a strutturarsi oppure rifiutano la strutturazione.
Lo spettatore ha l’inconscio costipato e, che si parli di violenza di gruppo o di fanatismo religioso, lo scopo di questo susseguirsi di notizie svuotate di informazione serve solo a produrre coliche.
A loro volta le più atroci fra questi coliche vengono premiate e riportate sullo schermo da un meccanismo retroattivo.
L’esito della lotta è incerto.
Così il labor escluso dall’opera per la cattiva coscienza degli antichi irrompe nella forma di ossessionata riproducibilità quantitativa attraverso la cattiva coscienza dei moderni. E in questo movimento si intuisce di nuovo il bisogno di unità.
Sarebbe avventato, oltre che inopportuno, lanciare previsioni su quando si renderà possibile la congiunzione salvifica tra il lato erotico e quello cosiddetto spirituale dell’umana percezione della realtà, nel grogiuolo della creatività e dell’intelligenza.
Pure se da questo emergerà, infine, una visione completa, Anima Mundi, allo stato attuale, l’unica talmente efficace da essere in grado di anticipare e quindi scongiurare la distruzione totale del pianeta terra, non ci è dato con certezza sapere.
Un dato però è certo, sono già suonate trombe e campane ad un volume talmente alto da svegliare un esercito di morti. (Non per questo c’è da farsi illusioni: l’industria della divisione lavora giorno e notte sotto un gran numero di nomi fantasiosi.)
Sì, in una lotta fra il nostro lato malvagio e il nostro lato buono il primo è sempre destinato a prevalere, perché (come suggerisce Baudrillard) non ha mai bisogno di escludere il secondo. Il male non si contrappone a niente.
No, questa dualità non può essere l’essenza del conflitto a cui, sia chiaro, non ci potremo in alcun modo sottrarre. Assomiglia piuttosto ad una domanda a cui non si deve rispondere in alcun modo.
Tantomeno questo è il senso dei molteplici colori cangianti impressi sullo stendardo della buona vecchia causa che ancora una volta alzeremo e dietro cui saremo di nuovo chiamati ad avanzare sotto il cannone del tempo.
Siamo coscienti che, nell’eventualità di uno scontro campale, saremmo destinati a cadere come soldatini veri in una battaglia simulata, ma, ora come allora, non si tratta di attendere. Si tratta di agire al di fuori della mente del nemico.
Così raccogliamo indizi come conchiglie sulla sabbia, perché è già trascorso il momento in cui si può essere appagati dalla propria sconfitta, né quel momento tornerà mai.
Così, con meticolosa precisione, estraiamo gocce di strategia da ogni battaglia in cui abbiamo lasciato ossa e divise strappate, in cui fatichiamo a riconoscerci.
Questo è il paradosso apparente di uno scontro che esclude i termini dello scontro.
Ciò che siamo è il tempo che divoriamo e da cui siamo divorati; perciò come combattenti liberi, attraversiamo la storia, e ciò che la contiene, per giungere infine alla conclusione vittoriosa che estingue il conflitto. Ci sarà la vittoria e non assomiglierà per niente ad un intrattenimento, ma non può esserci chi vince.
Gianni Casalini