Israele non vuole la pace

Israele non vuole la pace
da: http://ilmanifesto.info/israele-non-vuole-la-pace/
—  Gideon Levy, 12.7.2014
Medio Oriente. L’atteggiamento di rifiuto (rejectionism) è intrinseco alle convinzioni più radicate di Israele. Qui risiede, a livello più profondo, il concetto che questa terra è destinata solo agli ebrei

Iraele non vuole la pace. Non c’è niente di quello che ho scritto finora di cui sarei più con­tento di essere smen­tito. Ma le prove si sono accu­mu­late a dismi­sura. In effetti, si può dire che Israele non ha mai voluto la pace – una pace giu­sta, cioè basata su un com­pro­messo equo per entrambe le parti.

E’ vero che l’abituale saluto in ebraico è “Sha­lom” (“Pace”) – quando uno se ne va e quando arriva. E, di primo acchitto, pra­ti­ca­mente ogni israe­liano direbbe di volere la pace, è ovvio. Ma non farebbe rife­ri­mento al tipo di pace che por­te­rebbe anche alla giu­sti­zia, senza la quale non c’è pace, e non ci potrà essere. Gli israe­liani vogliono la pace, non la giu­sti­zia, cer­ta­mente non basata su prin­cipi uni­ver­sali. Quindi, “Pace, pace, quando pace non c‘è.” Non sol­tanto non c’è pace: negli anni recenti, Israele si è allon­ta­nato per­sino dall’aspirare a fare la pace. Ha perso total­mente lil desi­de­rio di farla. La pace è scom­parsa dalla pro­spet­tiva di Israele, e il suo posto è stato preso da un’ansietà col­let­tiva che si è siste­ma­ti­ca­mente impian­tata, e da que­stioni per­so­nali, pri­vate che ora hanno la pre­va­lenza su tutto il resto.

Vero­si­mil­mente il desi­de­rio di pace di Israele è morto circa dieci anni fa, dopo il fal­li­mento del sum­mit di Camp David nel 2000, la dif­fu­sione della men­zo­gna secondo cui non ci sono part­ner pale­sti­nesi per fare la pace, e, ovvia­mente, l’orribile periodo intriso di san­gue della Seconda Inti­fada. Ma la verità è che, per­sino prima di tutto que­sto, Israele non ha mai vera­mente voluto la pace. Israele non ha mai, nep­pure per un minuto, trat­tato i pale­sti­nesi come esseri umani con pari diritti. Non ha mai visto la loro sof­fe­renza come una com­pren­si­bile sof­fe­renza umana e nazionale.

Anche il campo paci­fi­sta israe­liano — se pure è mai esi­stito qual­cosa del genere — è morto anche lui di una lunga ago­nia tra le scon­vol­genti scene della Seconda Inti­fada e la men­zo­gna della man­canza di una con­tro­parte (pale­sti­nese, ndt). Tutto ciò che è rima­sto è stato un pugno di orga­niz­za­zioni tanto deter­mi­nate e impe­gnate quanto inef­fi­caci nel con­tra­stare le cam­pa­gne di dele­git­ti­ma­zione costruite con­tro di loro. Per­ciò Israele è rima­sto con il suo atteg­gia­mento di rifiuto.

Il dato di fatto più evi­dente del rifiuto della pace da parte di Israele è, ovvia­mente, il pro­getto di colo­niz­za­zione. Fin dalle sue ori­gini, non c’è mai stato una più atten­di­bile o più evi­dente prova incon­fu­ta­bile delle reali inten­zioni 8di Israele, ndt) di que­sta par­ti­co­lare ini­zia­tiva. In poche parole: chi costrui­sce gli inse­dia­menti vuole con­so­li­dare l’occupazione, e chi vuole con­so­li­dare l’occupazione non vuole la pace.

Que­sta in sin­tesi è la questione.

Ammet­tendo che le deci­sioni di Israele siano razio­nali, è impos­si­bile accet­tare che la costru­zione delle colo­nie e l’aspirazione alla pace siano vicen­de­vol­mente. Ogni atti­vità per la costru­zione degli inse­dia­menti dei coloni, ogni rou­lotte e ogni bal­cone tra­smette rifiuto. Se Israele avesse voluto rag­giun­gere la pace attra­verso gli Accordi di Oslo, avrebbe almeno bloc­cato la costru­zione di colo­nie di sua spon­ta­nea ini­zia­tiva. Il fatto che non sia avve­nuto prova che gli accordi di Oslo sono stati un inganno, o nella migliore delle ipo­tesi la cro­naca di un fal­li­mento annun­ciato. Se Israele avesse voluto otte­nere la pace a Taba, a Camp David, a Sharm el-Sheikh, a Washing­ton o a Geru­sa­lemme, la sua prima mossa avrebbe dovuto essere la fine di qua­lun­que tipo di edi­fi­ca­zione nei Ter­ri­tori (Occu­pati, ndt). Senza porre con­di­zioni. Senza con­tro­par­tita. Che Israele non lo abbia fatto è la prova che non vuole una pace giusta.

Ma le colo­nie sono state solo la pie­tra di para­gone delle inten­zioni di Israele. Il suo atteg­gia­mento di rifiuto è molto più pro­fon­da­mente radi­cato nel suo DNA, nelle sue vene, nella sua ragione d’essere, nelle sue ori­gi­na­rie con­vin­zioni. Lì, a livello più pro­fondo, risiede il con­cetto che que­sta terra è desti­nata solo agli Ebrei. Lì, a livello più pro­fondo, è fon­data la valenza di “am sgula” – “il pre­zioso popolo” di Dio – e “siamo gli eletti da Dio”. In pra­tica, ciò viene inteso con il signi­fi­cato che, in que­sto ter­ri­to­rio, gli ebrei pos­sono fare quello che agli altri è vie­tato. Que­sto è il punto di par­tenza, e non c’è modo di pas­sare da que­sto con­cetto ad una pace giu­sta. Non c’è modo di arri­vare ad una pace giu­sta quando il gioco con­si­ste nella de– uma­niz­za­zione dei pale­sti­nesi. Non c’è modo di arri­vare ad una giu­sta pace quando la demo­niz­za­zione dei pale­sti­nesi è incul­cata quo­ti­dia­na­mente nelle menti della gente. Quelli che sono con­vinti che ogni pale­sti­nese è una per­sona sospetta e che ogni pale­sti­nese vuole “get­tare a mare gli ebrei”, non faranno mai la pace con i pale­sti­nesi. La mag­gio­ranza degli Israe­liani è con­vinta della verità di que­ste affermazioni.

Nell’ultimo decen­nio, i due popoli sono stati sepa­rati gli uni dagli altri. Il gio­vane israe­liano medio non incon­trerà mai un suo coe­ta­neo pale­sti­nese, se non durante il ser­vi­zio mili­tare (e solo se farà il ser­vi­zio mili­tare nei Ter­ri­tori (occu­pati, ndt)). Nean­che il gio­vane pale­sti­nese medio incon­tra mai un suo coe­ta­neo israe­liano, se non il sol­dato che bron­tola e sbuffa ai chec­k­point, o irrompe a casa sua nel bel mezzo della notte, o il colono che usurpa la sua terra o che incen­dia i suoi alberi.

Di con­se­guenza, l’unico incon­tro tra i due popoli avviene tra gli occu­panti, che sono armati e vio­lenti, e gli occu­pati, che sono dispe­rati e anche loro ten­den­zial­mente vio­lenti. Sono pas­sati i tempi in cui i pale­sti­nesi lavo­ra­vano in Israele e gli israe­liani face­vano la spesa in Pale­stina. E’ pas­sato il tempo delle rela­zioni quasi nor­mali e quasi pari­ta­rie che sono esi­stite per pochi decenni tra i due popoli che con­di­vi­dono lo stesso ter­ri­to­rio. E’ molto facile, in que­sta situa­zione, inci­tare e infiam­mare i due popoli uno con­tro l’altro, spar­gere paure e instil­lare nuovo odio oltre a quello che già c’è. Anche que­sta è una sicura ricetta con­tro la pace.

Così è sorto un nuovo desi­de­rio di Israele, quello della sepa­ra­zione: “Loro se ne sta­ranno là e noi qua (e anche là).” Pro­prio quando la mag­gio­ranza dei pale­sti­nesi – una con­sta­ta­zione che mi per­metto di fare dopo decenni di cor­ri­spon­denze dai Ter­ri­tori occu­pati – ancora desi­dera la coe­si­stenza, anche se sem­pre meno, la mag­gio­ranza degli israe­liani vuole il disim­pe­gno e la sepa­ra­zione, ma senza pagarne il prezzo. La visione dei due Stati ha gua­da­gnato una dif­fusa ade­sione, ma senza la minor inten­zione di met­terla in pra­tica. La mag­gio­ranza degli israe­liani è favo­re­vole, ma non ora e forse nep­pure qui. Sono stati abi­tuati a cre­dere che non ci sono part­ner per la pace – ossia una con­tro­parte pale­sti­nese – ma che ce n’è una israeliana.

Sfor­tu­na­ta­mente, la verità è l’esatto con­tra­rio. I non part­ner pale­sti­nesi non hanno più la minima pos­si­bi­lità di dimo­strare di essere delle con­tro­parti; i non part­ner israe­liani sono con­vinti di esserlo. Così è ini­ziato un pro­cesso nel quale con­di­zioni, osta­coli e dif­fi­coltà (posti, ndt) da Israele, sono andati aumen­tando, un’altra pie­tra miliare dell’atteggiamento di rifiuto israe­liano. Prima viene la richie­sta di ces­sare gli attac­chi ter­ro­ri­stici; poi quella di un cam­bia­mento dei diri­genti (Yas­ser Ara­fat come un osta­colo (alla pace, ndt)); e poi lo sco­glio diventa Hamas. Ora è il rifiuto da parte dei pale­sti­nesi di rico­no­scere Israele come Stato ebraico. Israele con­si­dera ogni suo passo – a par­tire dagli arre­sti di massa degli oppo­si­tori poli­tici nei Ter­ri­tori (occu­pati, ndt)– come legit­timi, men­tre ogni mossa pale­sti­nese è “unilaterale”.

L’unico paese al mondo che non ha con­fini (defi­niti, ndt) non è asso­lu­ta­mente inten­zio­nato a defi­nire quale com­pro­messo sui (pro­pri, ndt) con­fini che è pronto ad accet­tare. Israele non ha inte­rio­riz­zato il fatto che per i pale­sti­nesi i con­fini del 1967 sono la base di ogni com­pro­messo, la linea rossa della giu­sti­zia (o di una giu­sti­zia rela­tiva). Per gli israe­liani, sono “con­fini sui­cidi”. Que­sta è la ragione per cui la sal­va­guar­dia dello sta­tus quo è diven­tato il vero obbiet­tivo di Israele, il prin­ci­pale scopo della sua poli­tica, pra­ti­ca­mente fon­da­men­tale e unico. Il pro­blema è che l’attuale situa­zione non può durare per sem­pre. Sto­ri­ca­mente, poche nazioni hanno accet­tato di vivere per sem­pre sotto occu­pa­zione senza resi­stere. E pure la comu­nità inter­na­zio­nale sarà un giorno dispo­sta ad espri­mere una ferma con­danna di que­sto stato di cose, accom­pa­gnata da misure puni­tive. Ne con­se­gue che l’obiettivo di Israele è irrealistico.

Sle­gata dalla realtà, la mag­gio­ranza degli israe­liani con­ti­nua nel pro­prio modo di vita quo­ti­diano. Nella loro visione della situa­zione, il mondo è sem­pre con­tro di loro, e le zone occu­pate nel giar­dino di casa sono lon­tane dal loro campo di inte­resse. Chiun­que osi cri­ti­care la poli­tica di occu­pa­zione è eti­chet­tato come anti­se­mita, ogni atto di resi­stenza è inter­pre­tato come una sfida esi­ziale. Ogni oppo­si­zione inter­na­zio­nale all’occupazione è letto come una “dele­git­ti­ma­zione” di Israele e come una minac­cia all’esistenza stessa del paese. I sette miliardi di abi­tanti del pia­neta – la mag­gior parte dei quali sono con­trari all’occupazione – sba­gliano, e i sei milioni di ebrei israe­liani – la mag­gior parte favo­re­vole all’occupazione – sono nel giusto.

Que­sta è la realtà dal punto di vista dell’israeliano medio.

Si aggiunga a que­sto la repres­sione, l’occultamento e l’offuscamento [della realtà, ndt], ed ecco un’altra spie­ga­zione dell’atteggiamento di rifiuto: per­ché ci si dovrebbe impe­gnare per la pace fin­ché la vita in Israele è buona, la tran­quil­lità pre­vale e la realtà è nasco­sta? L’unico modo che la Stri­scia di Gaza asse­diata ha per ricor­dare alla gente della sua esi­stenza è di spa­rare razzi, e la Cisgior­da­nia torna a fare noti­zia nei giorni in cui vi scorre il san­gue. Allo stesso modo, il punto di vista della comu­nità inter­na­zio­nale è presa in con­si­de­ra­zione solo quando cerca di imporre il boi­cot­tag­gio e le san­zioni, che a loro volta gene­rano imme­dia­ta­mente una cam­pa­gna di auto­com­mi­se­ra­zione costel­lata di ottuse – e a volte anche fuori luogo – accuse che fanno rife­ri­mento alla storia.

Que­sta è dun­que la cupa imma­gine [della situa­zione]. Non ci si trova nean­che un rag­gio di spe­ranza. Il cam­bia­mento non avverrà dall’interno, dalla società israe­liana, fin­ché que­sta società con­ti­nuerà a com­por­tarsi in que­sto modo. I pale­sti­nesi hanno fatto più di un errore, ma i loro errori sono mar­gi­nali. Fon­da­men­tal­mente la giu­sti­zia è dalla loro parte, e un fon­da­men­tale atteg­gia­mento di rifiuto è appan­nag­gio degli israe­liani. Gli israe­liani vogliono l’occupazione, non la pace.

Spero solo di sbagliarmi.

Edi­to­riale di Haa­retz del 4 luglio 2014, tra­du­zione di Ame­deo Rossi

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