“La soddisfazione del bricoleur quando innesta qualcosa su una conduttura elettrica, quando devia una conduttura d’acqua, si spiegherebbe assai male con un gioco di «papà-mamma» o con un piacere di trasgressione.”
Le macchine desideranti; Gilles Deleuze, Felix Guattari
Anche con poche pagine scritte si può fare i conti con un periodo intero della nostra vita, e magari con qualche tassello della vita collettiva. A volte basta anche meno. Anche una sola frase. Una battuta. Poche righe.
Questo è scrivere: il gesto magico. E , visto che nessuno, a parte il sottoscritto e un’altra persona che in questo post sarà chiamata Hal, può fare ciò, in merito agli avvenimenti che hanno portato, circa tredici anni fa, a coniare il termine trashware per definire l’insieme di pratiche consistenti nel riassemblare elaboratori elettronici funzionanti da pezzi destinati alla discarica, lo farò.
Trashware è un neologismo coniato da me e da Hal, ingegnere chimico col pallino del software libero, ottenuto dall’unione della parola inglese trash: spazzatura e ware: componente, nel lontano 1999. Nella nostra visione si poneva come terzo termine della serie (allora molto in voga nel vocabolario comune) hardware e software. Trashware sta ha significare possibilità di mettere insieme PC perfettamente funzionanti con pezzi altrettanto funzionanti, ma resi obsoleti dalle esigenze di mercato. Che erano e sono fondamentalmente quelle della spettacolarizzazione dell’immagine e dei videogiochi.
Tutto inizia un giorno che Hal, in preda ad una rivelazione mistica post-adolescenziale, piomba in casa mia con la promessa di avere l’essenza della rivoluzione assoluta in mano e, in poche parole, mi istalla una vecchia release Red Hat Linux sul mio PC fra l’altro piuttosto riluttante a questo sistema operativo, tanto libero, quanto… ruvido.
Io, che come informatico ero e sono uno dei più scarsi dell’universo riuscivo ad intuire un qualche senso in quell’entusiasmo elargito senza il minimo ritegno nei confronti di questo sistema operativo, che poi non era solo un sistema operativo, ma un paradigma, ma un nuovo modo di produrre le idee in rete, ma… ecc ecc.
Dopo aver istallato, in maniera approssimativa, il sistema sul mio PC, Hal passò all’installazione delle idee del Software Libero nel mio cervello. Io le misi in una directory cautelativa su cui avrei riflettuto con calma in seguito. In linea di principio condividevo questo entusiasmo. Mi sembrava davvero che qualcosa di nuovo potesse succedere sulla superficie del pianeta se una cosa così strettamente detenuta dal mondo della produzione come la tecnologia fosse finita in un paradigma cooperativo. Insomma se l’informatica che allora ci proponeva contemporaneamente scenari utopici di società in grado di svilupparsi sull’accesso universale all’informazione e scenari distopici di società pienamente controllate da poteri assoluti, riusciva a deragliare… a disertare in una direzione così liberata… Ecco si poteva essere partigiani. In modo nuovo. Mi piacque l’idea del SL. Ben sapendo che si prestava a letture anche parecchio distanti tra loro, in cui, però quella libertaria era predominante e comunque era la mia.
Hal si è convinto, fin dalla più tenera età, di essere un tecnico. In realtà sa di essere un umanista dentro un corpo da tecnico. Quindi un giorno farà outing e ammetterà pubblicamente di essere un umanista con il pallino della tecnica e non solo viceversa. Questa sua perversione ha sempre fatto in modo che potessimo andare d’accordo, perché… gli umanisti con il pallino per le chiacchiere sono scarsamente tollerabili.
Ad Hal “serviva” un “ideologo”. Nel senso di qualcuno che desse corpo a qualche idea. Negli anni ’70 di ideologi ne trovavi quanti ne volevi. Ce ne era uno per ogni uscio, ma nel senso dell’ideologia però. Ce ne erano per ogni esigenza, di tutti i colori e di tutte le sfumature. Al volgere del millennio ce ne erano pochi che potessero cavare fuori qualcosa di interessante da un’idea nuova. Almeno a Empoli e dintorni. Cioè nel raggio d’azione di Hal. Insomma, la maggior parte di coloro che avevano avuto a che fare con la politica o la società viaggiava a quei tempi girato indietro, come i gamberi, emettendo qualche sospiro per i bei tempi andati (quando c’era il muro, o Craxi o non si sa chi) e sperando così di intortare qualche nuova leva, sprovveduta e fragile di nostalgia. Io, invece, potevo essere quello che ci tirava fuori qualche cosa di nuovo da questa roba. Riuscivo a capire quanto bastava di informatica per non essere considerato analfabeta ed ero in grado di riflettere sulle ricadute sociali delle nuove tecnologie. Non ero il tipo da mettermi ad urlare – Il diavolo!- tutte le volte che mi si presentava davanti un monitor acceso e nemmeno ero contagiato dagli stereotipi nerd dell’epoca che riproducevano il linguaggio di un mondo marginale e autoreferenziale. Capì bene che mi proponeva un piano d’attacco. Lui ci metteva la preparazione tecnica e io tiravo fuori qualche coniglio dal cappello. Feci un po’ lo scettico poi accettai.
La sfida era interessante e non delusi almeno in un paio di occasioni. La prima fu durante la fondazione di un gruppo Linux a Empoli, che per inciso all’inizio contava di due soli affiliati: Hal e me, e in cui tirai fuori il nome GOLEM. Acronimo che stava e sta per Gruppo Operativo Linux Empoli. Tutt’altra roba rispetto alla proposta iniziale: E-lug.
Ok, dicevo io, se il SL è un multipiano dobbiamo trovare delle parole che siano multidimensionali, non piatte come quelle del gergo informatico. GOLEM funzionò. Perché si tirava dietro tutta l’idea della materia inanimata, hardware, che veniva animata dalla parola, software. Quindi la cabbala. Quindi ci stava dentro la leggenda ebraica praghese con questo mostro che può essere cattivo, ma anche buono a seconda delle versioni. Il mostro d’argilla dalla forza sbalorditiva che vive se la parola che è scritta sulla sua fronte è emet verità e invece muore quando il rabbino che l’ha creato cancella la e trasformandola in met: morte. Emet or met. Verità o morte! Già tutto questo era molto evocativo. Poi c’era il fatto che buona parte degli appassionati di informatica, almeno allora, aveva un infogno tremendo con cabbala, esoterismo e giochi di ruolo. E ci piaque anche l’idea di evocare un gigante di fango in grado di difendere la libertà con forza sovrumana. Idea epica e giocosa insieme. GOLEM è uno scherzo serio o una serietà scherzosa. Fai te.
Il boot era avvenuto. Adesso occorreva una situazione all’altezza della situazione. Così tirammo fuori il trashware. Ecco la seconda volta in cui produssi la parola giusta: trashware. Intanto esisteva la parola, poi sarebbe esistito il trashware. Né io ne Hal avevamo mai passato un pomeriggio della nostra vita in garage a sistemare vecchi PC, anche se Hal stava mostrando tutti i segni che avrebbe imboccato davvero quella pericolosa strada.
Certo questa era già una pratica consolidata tra i nerd. Era piuttosto strano che due non-nerd come noi dessero a questa pratica uno statuto di dignità. Si trattava di una pratica privata che noi potevamo rendere pubblica. In effetti funzionò. Ma non facemmo solo questo. Fornimmo un momento di riflessione per ciò che stava accadendo davanti agli occhi di tutti e lo sintetizzammo in un giochetto.
A tutt’oggi penso che questo non era banale.
Allora lavoravo per una cooperativa che raccoglieva i materiali ingombranti per conto della locale società della nettezza urbana. Assistevo quotidianamente al riempimento dei cassoni dei materiali elettronici e pensavo che sarebbe stato possibile creare cose nuove da quella materia apparentemente morta. Quella fu la nostra prima materia. Non si trattava di una riflessione puramente estetica. Era di più che utilizzare un materiale di recupero. Era recuperare un materiale che il meccanismo accelerato del consumo aveva costretto a divenire spazzatura in tempi record. Molte delle riflessioni che ho fatto o scritto in seguito sull’argomento derivano da quell’esperienza.
Spesso ho insistito sui concetti tipo merce e spazzatura, sulla labile distinzione che esiste tra questi due termini.
Mi piace mettere in risalto che mai come oggi l’essere umano è stato circondato da una gran quantità di oggetti con cui si identifica e che è solo nei termini della relazione con quegli oggetti e che essi sono definiti merce, e quindi dotati di un ordine o spazzatura cioè dotati di disordine. Il discrimine è un certo tipo di attenzione mentale. I primi esistono come oggetti morti che vivono di rappresentazione i secondi si affacciano di nuovo alla potenzialità del kaos.
Questo offrivamo. La visione per cui tutto il mondo o tutta la rappresentazione di mondo della nostra specie cammina precariamente sul margine del kaos. Da lì a poco sarebbe stata formalizzata la società del terrore che ha la sua origine profonda in questa possibilità di ribaltarsi di ogni cosa da un momento all’altro: da oro a merda, da vita a morte, da pulito a sporco, da sicuro a insicuro, da certo a incerto e così via all’infinito.. Nightmare, il film, è stata la rappresentazione e l’anticipazione più esatta del risvolto emotivo di questa fragilità, dovuta a questo pericoloso rovesciarsi del mondo. C’è qualcosa che non si può più fare: smettere di vigilare sul nostro mondo, scivolare nell’inconscio. Basta che si apra una finestra, in quel caso il sonno, e tutto ciò che è un sogno diventa un incubo.
Oggetti come SIMULACRI (Baudrillard), svuotati di valore d’uso e dipendenti da una creatività sovversiva per essere tradotti in qualche campo di significato. Offrivamo la prova di una potenzialità di controllo. Non di una reversibilità. La spazzatura non ritorna merce. Torna qualcosa liberato dalla sua natura duale merce-spazzatura. Non torna indietro, rinasce in altra forma. In questo caso non ha più un prezzo, ma un valore. Si può regalare. Per far questo occorre creatività! Come per far vivere le parole e trasformarle in una storia, come nel disporre i colori e la luce per farli divenire una forma… Come nel fare bricolage!
Le idee stesse quelle che avevamo trovato nel nostro percorso potevano essere ri-assemblate insieme e dotate di nuovi significati. Le idee aspettavano di essere tradotte in qualche campo di significato. Le potenzialità erano enormi. Ma sono bastati un po’ di colpi di scena narrativi. Come quello dell’11 settembre o l’immiserimento delle masse e gli scrittori del sistema di dominio ci hanno messo all’angolo.
All’angolo, ma non fuori uso.
I think tank dell’epoca agirono producendo le narrazioni che avrebbero coperto le spalle al neoliberismo. Noi volevamo costruire piccole storie che andavano nella direzione opposta.
Il passaggio successivo era fin troppo scontato. Inserire su computer rimessi in sesto a solo valore umano, frutto dell’esperienza volontaria dei nuovi hacker, sistemi operativi in grado di supportarne le funzioni e persino perfettamente legali: regalare. Permettere alle persone di poter di nuovo regalare! Si tratta pur sempre di macchine potenti che messe nelle mani di individui privi di mezzi, ma ricchi di intelligenza sarebbero riusciti a esprimere le vere potenzialità. Nuovi punti di accesso ad un mondo che vuole sorpassare uomini e macchine. Regalare PC funzionanti al terzo mondo, alle associazioni, ai gruppi di volontariato…
Precisiamo una cosa. Questo era un gioco follemente serio. Ma nessuno ha mai pensato che si sarebbe potuto sostituire lo sviluppo agricolo o l’indipendenza alimentare con la donazione di computer. Non si mangiano i computer. Ogni tanto qualcuno si dava la pena di ricordarcelo, come se non lo avessimo avuto ben chiaro fin dal primo momento.
Ma la possibilità di aprire delle opportunità di conoscenza era un percorso parallelo. Creava un legame tra mondi lontani che non era solo quello dei rapporti di sfruttamento portati dalla globalizzazione. Una via di fuga.
Sapevamo benissimo che il software libero era studiato per tutto tranne che per essere user friendly su macchine poco potenti. Ma questa era la storia che secondo noi si sarebbe dovuto raccontare. Perché le macchine dell’informazione devono diventare rottami appena al pargolo della zona del consumo viene regalata la versione nuova del videogioco, ma non devono arrivare nelle mani di un ragazzino in una zona al margine del consumo, dove possono diventare mezzo di conoscenza…
Come ogni storia anche questa tirerebbe dietro a se tutte le storie del mondo . Difficile è circoscriverle le storie. Ho volutamente evitato di parlare di tutte le ingenuità, di una punta di presunzione e di qualche figuraccia che pure non ci siamo risparmiati allora. L’ho fatto soprattutto per pudore , ma anche per potermi soffermare meglio sull’origine della parola trashware che di per sé era già una sintesi, una storia.
Raccontando alla rinfusa ciò che è stato fatto e i motivi che ci hanno animato non posso fare a meno di ricordare che ci siamo tirati dietro un sacco di gente veramente assortita, brillante e curiosa. Eravamo una bella armata Brancaleone. Abbiamo passato momenti esaltati a discutere e cannibalizzare hardware. Mi torna in mente Alessandro che da sistemista esperto ha messo su i primi corsi di alfabetizzazione al SL gratuiti. Il vero linuxista Lenny che ci considerava dei pazzi; il che era tutto un programma. Lo Struzzo che pure ci forniva supporto prezioso. Pierangelo, uno dei dodici preti operai presenti in Italia, conosciuto in fabbrica, che ci offrì una stanza per iniziare ad esistere… I contatti con Ferry Byte, Simone, Leandro… Poi l’Ugolini, John Doe, Dario, Luana e tutti gli altri che sono stati più importanti delle nostre idee stravaganti per il GOLEM, ma così si cade nel binario scivoloso della nostalgia e non è questo il luogo.
Una storia anche se è fatta solo di una parola potrebbe tirare a sé tutte le storie del mondo. Come se divenisse il centro di un vortice. Un centro sempre più denso; un buco nero. Ogni storia è un buco nero. Per questo si ha paura a raccontarle le storie. Quando una storia, per quanto banale all’apparenza, è accaduta realmente essa si presenta come un complesso ordito di vissuti personali, derive, improvvisazioni, eventi casuali o presunti tali, gesta, pensieri, coincidenze e umori e di nuovo storie… Ogni storia non ha un fondo, potrebbe continuare all’infinito, richiedendo un incolmabile tributo di parole, perché fra me che sto seduto e il ticchettio della tastiera che sento adesso e gli avvenimenti di un altro tempo che sto raccontando grazie a quel ticchettio ci sono infiniti punti. Infiniti momenti e infinite narrazioni. Questo non parlare di tutto ha un senso se sono riuscito a includere dentro gli spazi lasciati vuoti tra le parole almeno un po’ di questo infinito resto e sono riuscito a far brillare per un attimo lo spirito che ci ha animato allora.
[GC :::novembre 2012:::]
Quanti possono dire di avere un “personal ideologist”?