C’era una volta la merce

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Nota 2 – C’era una volta la merce -2011
Vedi anche: La società dei consumi consuma i consumatori

Come tende le mani verso la propria distruzione la merce contemporanea, verso il proprio annichilimento, la perdita di funzionalità, quasi nasce già rotta, appena nata corre verso l’inutilizzabilità, la ricerca del proprio guasto, la propria usura forzata, la propria inadeguatezza. Scade nell’immediato, decade nel tempo e ingombra lo spazio. E’ già superflua al concepimento. Un ingombro congenito. Cifra stilistica della merce contemporanea. Essa racchiude in sé un pezzo di immondizia ancora in fase quiescente.

C’era una volta la merce che ostentava un proprio valore. Ma è stato molto tempo fa. La merce contemporanea serve il tempo di una messa in scena, passato il quale acquista il valore negativo di una presenza superflua. Il valore che essa contiene è dato dal vuoto che può lasciare affinché sia riempito di nuovo da oggetti appartenenti alla stessa serie, utili per nuove configurazioni passeggere. Non rappresenta il nuovo ma il vecchio che attende il turno. Vive già in un passato mentre indica controvoglia un futuro.

E’ un segno che prende valore da altri segni, ma l’ultimo segno poggia sul vuoto (questo è il terrore). Sulla sua assenza predestinata. Una sostituzione dietro l’altra, un episodio dietro l’altro. Seriali, ripetitivi, veloci, rassicuranti. Lenitivi per la fobia compulsiva generata dal tempo che essa stessa divora.

C’era una volta la merce. Coloro che la producevano, coloro che la consumavano. Ma al posto della merce si registra la presenza di una serie estesa di oggetti di scena. Oggetti che vivono in un tempo accelerato la loro scontata mutazione; provengono da lontano, vengono utilizzati il tempo di una sequenza, frammentano coloro che li usano, passano di mano tra coloro che ne sono prodotti o che ne sono consumati.
Unica realtà incontestabile; solidità in cui vanno a morire tutti gli spettacoli è quella del cimitero discarica o del forno crematorio inceneritore assoluto. Inferno dantesco for object only tutto situato nell’aldiquà.

Cantami o diva delle cose che bruciano perché non siano bruciate le persone. I roghi, i forni del Reich sono sempre lì dietro l’angolo. E voi non inceppate la vostra macchina, il peggio è un predatore in agguato che dal passato èpronto con un balzo colpire nel presente. La barbarie è incorporata, non è un’evoluzione è “di serie”.
E’ questo il presente?
Il tempo in cui il proprio medioevo tiene in scacco ogni possibile futuro?

[GC :::2011:::]

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E’ crisi per tutti?

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Al cuore Ramon!
-Per un pugno di dollari-

Prima di tutto: far saltare le parole d’ordine.

E’ crisi per tutti. Della serie -leggende metropolitane-. No. Non è crisi per tutti. Il dieci per cento della popolazione detiene la ricchezza del 90% del PIL e il 90% il 10% e la forbice aumenta ogni anno in Italia. E’ crisi per molti, ma non per tutti. Questo è il problema.Era su repubblica qualche tempo fa non me l’hanno detto i servizi segreti.

Ma la parola d’ordine invece è: crisi per tutti.
Crisi anche per i VIP della TV. Per i calciatori è crisi. Eh sì ragazzi: tutti uniti! Tutti compatti sotto il tricolore. Stringere i denti è crisi. Tutti commossi. Tutti a cantare l’inno di Mameli aspettando che passi la crisi. Abbasso i poveri che portano merda. Viva i ricchi che sono un esempio di efficienza. Abbasso la crisi.

Per coloro che consumano il lusso, il cui trand è in crescita, non è crisi. Per il proprietario dell’auto da 70 mila euro che mi è passato davanti pochi minuti fa non è crisi. No. Non è crisi per tutti.

Per l’enorme pachiderma di impiegati della burocrazia ministeriale, statale e parastatale che garantiscono la stabilità sociale e la tranquillità delle classi agiate in questo paese e servono per impedire, di fatto, l’istituzione di un vero STATO SOCIALE (a che serve lo Stato Sociale se ci sono le clientele? A che servono i diritti se ci sono i privilegi cosi facilmente accessibili?) non è crisi.
[Capisco che per dei sindacalizzati di sinistra questo discorso è sgradevole, visto che l’ultimo baluardo del sindacato è rimasto il pubblico impiego, ma io non devo  staccare tessere a nessuno e lo Stato non mi paga.]

Ricchi e sistemati costituiscono lo zoccolo duro dell’equilibrio del paese. Raddoppiano o triplicano con gli aspiranti ricchi e aspiranti sistemati, ma, mentre i primi sono in calo i secondi in aumento vertiginoso e ingoiano rospi su rospi e stringono denti e sono foglie nei venti del ricatto. Ma se ne stanno calmi. Aspettando il momento buono oppure sbroccano.
Il resto mangia polvere a vario titolo. Sfigati, looser. Gente che non investe nella formazione. Che non ha pensieri sufficientemente positivi. Che non crede nell’innovazione. L’innovazione: il mito dei giornalisti radical liberal chic o aspiranti tali.

Comincia a fare il verso a qualcuno. Ad un ricco, ad uno famoso. Ad un vincente, ad un impiegato (sì, è la rivincita di Clark Kent su Superman), ad un sistemato, ad uno svoltato. Insisti. Un giorno ti sveglierai e sarai come lui. Sennò ti sveglierai tutto sudato, sfigato, esodato, disoccupato, precarizzato. Impegnati.

Ecco l’ordine: fagli il verso e un giorno ti sveglierai come lui!

Allora servono pure i campioni dell’antisistema. Per offrire una gamma maggiore di modelli per l’immdesimazione. Ce n’è per tutti. Un meccanismo perfetto perché se diventi bravo a rompere i coglioni non ti mettono in galera, ti promuovono a campione del rompimento di coglioni. Poi i campioni del rompimento di coglioni trovano i loro emuli su scala locale e il gioco è fatto. Per il nemico, chiaramente.

Quello che per la massa è un sogno per me è un incubo e viceversa. Io non mi voglio svegliare come loro.
Perché la maggioranza non si incazza? Ecco la domanda che i progressisti inviano dal loro PC al marasma d’informazione della rete.
Perché la massa è con loro! Perché la massa è come loro. Perché la massa vuole credere di essere loro. Facile. Adesso lo sapete. Smettete di cadere dalla luna. E più la massa si precarizza più compete per compiacere il proprio aguzzino. Poi nello sgabuzzino si sfoga. Sempre facendo attenzione a non pestare i piedi ai suoi eroi vincenti, si sfoga.

Sii propositivo Gianni. Dicci qualcosa per cui lottare.
Sì. Dovete pagarci! Prima di tutto: il reddito! Non il lavoro prima di tutto, come ho visto scritto su un manifesto di un partitino comunista. Sul lavoro possiamo anche passarci sopra. Dovete pagarci anche per non fare un cazzo, perché siamo qui a vostra disposizione e la reperibilità si paga. Poi abbiamo delle spese! Dove prendiamo le risorse? Da quello che tocca a voi. Ecco da dove, dai vostri soldi. Dai vostri profitti. Prima di tutto. Poi non è finita lì. Legalizzando le droghe e togliendoli alla mafia per esempio. Così per essere propositivi.

Adesso lo sapete. Iniziate a fare a pezzi e sabotare le parole d’ordine e gli ordini impartiti. I mezzi sono fra noi. Aguzzate l’ingegno. Smettete di pensare che si tratta di fare più rumore della mucca curreggiona o più contatti della casalinga ignuda. Che non serve a niente. Un buon generale non affronta lo scontro frontalmente quando si trova in condizioni di inferiorità sul campo. Si può anche compiere degli errori, sì, purché servano a migliorare la strategia e la tattica. La tastiera non è un fucile, ma se è collegata bene ad un cervello dove risiede una chiara volontà di mirare al cuore può piantare proiettili d’argento. Si tratta anche di muovere il culo talvolta, gente. Ma non a caso, altrimenti meglio un buon libro. Occhio, il nemico  ha pianificato il vostro dissenso per i prossimi dieci anni. O si riesce a prendere in contropiede o sennò meglio un buon libro.

Letteralmente crisi significa cambiamento. Allora: Crisi per tutti!
La posta in gioco non è uno scherzo.

[GC :::2012:::]

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La società dei consumi consuma i consumatori

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Nota 1 – La società dei consumi consuma i consumatori -2011

La merce è il capitale in forma transitoria; la spazzatura è merce in forma definitiva.
Merce un giorno poi immondizia per sempre. Nella stagione che stagioni non sente.
Prima di venire sepolta l’anima della merce si è già separata per essere catturata e immagazzinata in forma di moneta.
L’anima della merce scivola nelle banche mentre il corpo diventa un detrito. Enormi cumuli di detriti stanno al passaggio della merce.
E’avvenuta la transizione! L’anima è salva. Con la separazione dal valore monetario si cattura il tempo astratto che c’era dentro. Ma il tempo è relativo anche se astratto, anche se morto. Quanto sia il tempo-anima contenuto nella merce si scopre solo durante la transizione.
Appena venduta la merce cambia ruolo e viene autorizzata a degenerare, inizia a vibrare del moto vorticoso della degenerazione. Cambia ruolo e si configura di nuovo, registra la caducità del tempo e la manifesta accelerandola, mentre prima era soltanto l’immagine smelensa di un’immagine desiderata. Granellino nella salsa della pubblicità. Simulacro d’infanzia decade, precipita e diviene vecchia velocemente al posto di chi la compra e la getta.

Trovare un senso agli oggetti che passano attraverso la propria storia personale è il lavoro del consumatore. E’ anche la passione di cercare sé stessi negli oggetti materiali. Nell’assenza di relazione e di erotismo. Passione frustrata dalla serialità degli oggetti con cui ricerca nuove configurazioni. Passione assistita dal sistema della moda. Passione accoppiata con l’abbassamento del livello ormonale degli individui.

Fatto significativo perché sia mantenuto lo scambio tra merce materiale o immateriale e il proprio equivalente generale (moneta) è che la stessa transazione comporti il rilascio nel sistema nervoso centrale dell’essere umano di dopamina, adrenalina e serotonina.

Non è riparabile e le componenti sono talmente mescolate tra loro da essere quasi inseparabili per avviare nuovi possibili cicli vitali dei materiali che compongono l’oggetto.

La società dei consumi non consuma un cazzo e ciò che produce arriva alla propria distruzione quando ancora la quasi totalità delle componenti che costituiscono l’oggetto è integra e perfettamente funzionante. La società dei consumi consuma il tempo dei viventi. La società dei consumi consuma i consumatori.

La merce vende la propria complessità che dura il tempo di uno spettacolo.

Il consumatore-spettatore è il custode una discarica temporanea de-localizzata, a cui deve tributare una notevole dose di tempo, energia ed attenzione per mantenere un ordine e un significato. Tanto maggiore è il disordine esterno tanto maggiore è la sua tendenza ad organizzare degli interni a misura di un ordine personale ideale. La degenerazione del tessuto sociale coincide con un migliore funzionamento del consumatore quale canale di transito e separatore fra tempo morto e spazzatura.

[GC :::2011:::]

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Quelli della TV che non hanno il posto fisso

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Sabato sera sbirciando una cronaca locale ho scoperto che Enrico Rossi, il candidato PD per la regione Toscana, ha visitato il frantoio cooperativo dove ho lavorato l’anno scorso durante la raccolta delle olive. Rossi ha inaugurato lo stabilimento nuovo. Fantastico.
I dirigenti hanno affermato che la cooperativa assumerà dieci nuovi stagionali. Fantastico.
Peccato che uno di quei “nuovi” stagionali sia assunto al posto mio. Nel senso che non sono stato richiamato a lavorare quest’anno. Vabbé. Nessuno ti deve spiegare perché non vieni riassunto l’anno successivo. Nessuno ti deve spiegare niente. Se non lavori è perché non sei competitivo. Che vuol dire? Una cippa di minchia vuol dire, ma tanto vale. Infatti non ne ho fatto una questione. Però ammetto che la paginata col politico in voga che taglia i nastri e la notizia delle nuove assunzioni un po’ mi ha fatto girare i coglioni.

D’accordo il posto fisso è noioso, ma tutte queste emozioni non saranno troppe? Mi sono detto. Chi se ne sbatte. Astieniti anche dal commentare mi sono detto. Tanto fanno che cazzo gli pare, mi sono detto. Poi sembra che ce l’hai con qualcuno in particolare, oppure che tieni per l’avversario di Rossi, che invece non so nemmeno come si chiama, mi sono detto.
Insomma peggio per chi ci crede. Mi sono detto.
O forse no. E’ tutto un alibi. Peggio per me che m’attacco al cazzo, mi sono detto. Poi mi sono messo a fare altro e non ho avuto più bisogno di dirmi niente. Meno male.

Oggi per caso mentre aspetto in sala d’aspetto apro un giornale dal nome significativo -Dipiù- (purtroppo nelle sale d’aspetto non hanno riviste pornografiche con sesso esplicito, ma solo riviste pornografiche con sesso implicito e con nomi espliciti. Per dire la decadenza dei tempi.)

Avete presente Dipiù? Fortissimo! Uno di quei clisteri che fanno al cervello degli italiani e, soprattutto, delle italiane. Frammento di quella enorme massa di informazione che gli italiani (e le italiane) con gran foga si infilano su per il cervello, per essere sicuri di non essere toccati da nessun avvenimento reale. Dipiù! Sìììì. Dipiù!!!

Insomma roba da sala d’attesa -altra grossa metafora della precarietà-.
Cosa ci trovo? Un articolo bellissimo. Ho preso appunti sul taccuino. Sfondo blu, lettere bianche. Quelli della TV che non hanno il posto fisso. EBBENE SÌ, ANCHE NOI SIAMO PRECARI (cubitale). …di lusso e dunque senza posto fisso; anche noi viviamo la paura della disoccupazione. (Più piccolo in corsivo e colore giallo).
Sotto: “Nella mia carriera non ho mai avuto sicurezze e per anni sono stata senza lavoro”, dice la Cuccarini – Per non perdere il posto sono tornata in onda un mese dopo il parto, racconta la Volpe.
Poi ci sono delle fotografie tipo fototessera dove compaiono dei personaggi TV con un simpatico sfondo di banconote di varia pezzatura di euri giganti e sotto delle dichiarazioni meravigliose.

Tipo:
LIORNI. Marco Liorni, 46 anni ecc ecc: “Faccio questo lavoro per passione, non per il contratto”.
ISOARDI. Elisa Isoardi, 29 anni ecc ecc: “Essere precari è uno stimolo per dare il massimo”.
VESPA. Bruno ecc ecc: “Ho un contratto di tre anni che viene rinnovato ogni volta, ma non mi sento precario”. (Oh, l’avresti detto che Vespa rilasciava la dichiarazione più ragionevole?)
ANGELA. Piero ecc ecc: “Il mio contratto viene rinnovato di anno in anno”.
Frizzi ci dice anche che: “All’improvviso mi sono trovato senza lavoro e senza stipendio”.

Confido sulla vostra pazienza morbosa ma devo riportare anche l’inizio dell’articolo.

Roma, luglio
Anche nel dorato mondo dello spettacolo esistono contratti a termine, il cui rinnovo è in bilico fino all’ultimo giorno, periodi di disoccupazione, ferie e maternità non pagate e persone lasciate a casa dopo pochi mesi di lavoro. Molti conduttori televisivi, infatti, sono dei “precari”. Certo, va detto immediatamente che si tratta di precari “di lusso”. I presentatori, infatti, nei mesi in cui lavorano guadagnano cifre altissime, che permettono loro di vivere tranquilli anche nei momenti di inattività, e che non sono paragonabili agli stipendi della maggior parte degli italiani. Però anche loro (corsivo mio), quando il rinnovo del contratto non arriva, vivono momenti di angoscia e preoccupazione. Anche lavorare in TV, insomma, secondo molti conduttori, è incerto come le sabbie mobili. Eccetera eccetera…

Mi astengo da ogni facile ironia perché non c’è un cazzo da ridere. Questo è un articolo politico pensato e realizzato con piena consapevolezza dello scopo da ottenere e del metodo per ottenerlo. Uno dei tanti che “il mediale” (diciamo così) fornisce alla massa, mentre l’intellettualità critica (diciamo così) bisticcia su cose varie che ora non mi interessano.

L’articolo meriterebbe una completa e intensa decostruzione. Io però, mi sono limitato a riportare questi pochi passaggi perché penso bastino per riflettere sull’essenziale.

Una cattiva notizia. Come sempre le vedette dello spettacolo stanno lì a raddoppiare col loro dorato mondo, il mondo reale. Più il mondo reale diventa merdoso, più quello dello spettacolo deve apparire dorato. Insegna Hollywood. Negli USA la gente comune non conta un cazzo o, meglio, conta in proporzione al reddito, allora si producono film in cui una strafica, ma sensibile e intelligente, da sola affronta una terribile multinazionale, la porta in tribunale e la fa a pezzi. E tutti vissero felici e contenti.
Questa in sintesi -ma proprio in sintesi- è la società dello Spettacolo. Il mondo viene raddoppiato. Qualcuno vive al posto di tutti. Soprattutto vive al posto tuo.
In Italia non esiste diritto alla maternità? E allora? Milioni di donne possono vivere comunque la maternità delle vedette dello spettacolo. Una maternità ideale, piena di attenzioni, raccontata settimana per settimana sui giornaletti, con un sacco di frasine carine tipo “L’esperienza più bella della mia vita…  grazie alla maternità ho capito…”. Ma chi se ne frega di cosa hai capito! Sei lì soltanto perché milioni di persone si immedesimino nella tua maternità, nel tuo pancione, nella tua immagine prostituita. Tu vivi al posto degli altri. Sei lì per conto dei padroni e basta. Una donna reale i tuoi discorsi non li potrà mai fare. Un’operaia viene assunta se firma una lettera di licenziamento in bianco. Non esiste un reddito di autodeterminazione, non c’è un reddito minimo in questo paese dove i posti clientelari producono debito pubblico a nastro. Questo è il mondo reale.
Fino a qui niente di nuovo.

La buona notizia è che adesso raddoppiano anche la precarietà. Buona? Dirà qualcuno.
Sì buona, perché è il segno di una crisi. La crisi dell’immagine. Qualcosa si sta scollando. Nella pur becera coscienza collettiva questi doppioni immaginari della vita perdono i colpi. Sarà la depressione collettiva, sarà quel che sarà, ma adesso c’è bisogno di dire che anche loro… vivono momenti di angoscia.
Si può essere precari (visto che ormai lo siamo), ma di lusso. Ce la puoi fare, ma non a farcela; farcela a non farcela di lusso!

Il rapper che esce dal ghetto è un’icona e sta lì a rappresentare quello che ce la fa ad uscire dal ghetto, in modo che gli altri ci marciscano per tutta la vita nel ghetto. Ma, si fa credere che esca davvero dal ghetto. Con il sottoproletariato americano (e con tutti i sottoproletariati dell’ex terzo mondo) ha funzionato.

Finora ha funzionato anche con le vedette che rappresentano la classe media virtuale. Ma adesso che la precarietà si presenta come il sistema dominante qualcosa si è interrotto. Chi è arrivato al top ha preso troppa distanza, allora se Maometto non va alla montagna, la montagna va a Maometto. Così le star devono essere rappresentate come precarie. Ma questo vuol dire che qualcosa si è indebolito.

In pratica la buona notizia e la cattiva notizia sono la stessa notizia. Il dato politico (perché la politica si fa sui rotocalchi, non dove c’è scritto politica) è che si vuole dare la certezza che c’è un binario unico su cui tutti stiamo viaggiando. Si tratta di montare sulla carrozza dorata invece che su quella scassata. Ma il binario è quello, non è contestabile. Ecco.

Io non so dove questa cosa può portare.
Che sia l’inizio della fine del mondo? Di questo mondo. Ma speriamo.

Perché ho scritto questo post? Perché anche io leggo le tante frasucce che circolano sul web… i pensieri positivi si avverano ecc… quindi prima di passare ad un totale trionfo personale (certo inevitabile) mi sono voluto permettere uno sguardo disincantato su un mondo che vorrebbe che io e Frizzi condividessimo gli stessi sentimenti.
No cari. Io scrivo per portarmi a casa ciò che è mio. Fosse anche soltanto un banale giramento di coglioni.

Gianni :::15 ottobre 2012:::

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Filantropia

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Noto che il lato filantropico in molte persone è decisamente più sviluppato di quello sociale o politico. Quando tentano di tradurre le cose migliori dal loro lato filantropico ad un qualche versante sociale (che corrisponde al passaggio da un sentimento privato ad una visione collettiva) ciò che esce non è pregevole.
Deve essere il risultato di trenta anni di diseducazione al pensare e all’agire collettivo, di cui ci piace credere responsabile solo una casta di approfittatori e sciacalli.
Causa o effetto? Effetto e causa?
[GC :::2012:::]

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Baricco 1995 – Roth, Spielberg e l’Olocausto

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Secondo Barnum che ri-propongo su sutradeloto.
Cosa sono i barnum l’ho già spiegato nell’introduzione al post che ho pubblicato su questo blog – Amori sul pianeta Fininvest.

Riporto.
E’ un libro. Si chiama Barnum – Cronache dal Grande Show, era, e credo sia ancora, edito da Feltrinelli in Universale Economica. Si tratta di una raccolta di scritti che Alessandro Baricco firmava settimanalmente sulla Stampa, curata da lui stesso. L’arco temporale è quello che va dal 1993 al 1995 [leggi tutto]

Quella che segue è una riflessione, scritta più di quindici anni fa, con cui Baricco si lancia nella pagina più spinosa d’occidente, lo sterminio nazista (del popolo ebraico).
Da narratore Baricco usa per questa complicata immersione l’appiglio di un libro e di un film entrambi famosi. Il risultato è notevole. Le linee in cui si sviluppa il discorso offrono spunti preziosi a chi legge.

Ho usato una parafrasi –lo sterminio nazista (del popolo ebraico)- perché già la parola con cui parlare della faccenda è questione spinosa in sé. Era il 1995 circa quando Baricco scriveva questo articolo e poteva usare la parola Olocausto, per riferirsi al terribile fatto storico. Nell’articolo appare una volta soltanto la parola Shoà e appare citata da Roth, cioè da un ebreo.

Un ricordo personale: io fin da piccolo sapevo che mio nonno era morto nell’Olocausto. Perché Olocausto era (era diventato) un termine senza confini o discriminanti semantiche particolari. Nell’Olocausto c’erano morti ebrei e non ebrei. Questo era l’utilizzo comune della parola. Nell’Olocausto i nazisti avevano ammazzato e bruciato Ebrei, Comunisti, Testimoni di Geova, Omosessuali, Democratici, Sindacalisti, Zingari, Slavi… e troppi altri. Questo era sapere comune.
Adesso sono nel vento come dice una canzone. E il vento non fa certo distinzioni semantiche.

Ancora nel 1995 nessuno bacchettava Baricco per l’uso di questa parola. In seguito -ma non so in quale anno- la comunità ebraica internazionale ha chiesto, e ottenuto, l’utilizzo della parola Shoà al posto di Olocausto.

Nel mio amato Zingarelli dell’anno 1984 (ottimo anno per comprare un vocabolario ne converrete), alla voce Olocausto leggo: Olocàusto: [vc. dotta, lat. tardo holocaustu(m), dal gr. holokauston ‘cosa completamente bruciata’, comp. di holos (V. olo-) e kaustos (V. caustico)] A s. m. 1 Nella liturgia ebraica antica, sacrificio levitico nel quale la vittima era arsa completamente 2 est. Sacrificio totale, completo, anche di se stesso: fare – della propria vita; offrirsi in  – , B agg. lett. Offerto come vittima di un totale sacrificio.

Mentre la parola Shoà nemmeno compare nello Zingarelli del 1984. [Strano però che la voce Olocausto su questo vocabolario ignori il significato in questione. Non me ne ero mai accorto prima d’ora. Strano. In un vocabolario in cui non compare nemmeno un sinonimo…  Mah, forse è arrivato il momento di comprarne uno nuovo!]

La parola Olocausto ha un significato spostato sul sacrificio volontario. Il termine Shoà significa invece distruzione e non c’è nessun riferimento alla volontarietà. Quindi è più esatta. Ed è pure una parola che deriva dall’ebraico. Non ha una derivazione latina e greca.
Questo però rende un po’ esclusiva la questione: genocidio nazista durante la seconda guerra mondiale. Senza contare che la parola Olocausto era ormai estesa a tutti i genocidi. Ad esempio viene usata anche per il genocidio di due milioni e mezzo di cristiani in Turchia avvenuto nel 1915.

Intendiamoci non c’è nessun ebreo, nemmeno il più sfegatato sionista, che neghi lo sterminio dei non ebrei. Per contro adesso si moltiplicano gli imbecilli antisemiti che preferiscono negare l’Olocausto o la Shoà che dir si voglia.

Revisionismo e negazionismo. Fino a non molto tempo fa c’erano individui, ripugnanti quanto si vuole, che affermavano la bontà degli stermini nazisti, senza nessuna necessità di negazione. Adesso, in un mondo dominato dal decoro pubblicitario, questo discorso può restare -inside- a gruppi nazi-fascisti, ma non è adatto al marketing. Un’ideologia che ha portato allo sterminio di sei milioni di ebrei e almeno altrettanti non ebrei, non è fashion, è indecorosa. C’è poco da fare. Per chi tenta un qualche rilancio d’immagine è necessario affermare, anche beceramente, che non è mai successo niente di tutto ciò. -Tanto se ne sentono dire tante di panzane-. Il negazionismo e il revisionismo sono pappa pronta per la medietà.

Che dire? Mi risulta difficile dire che ho un nonno vittima della Shoà. Quando lo dico in molti mi chiedono se era ebreo. Quando rispondo di no c’è chi resta un po’ perplesso. Come se l’unico modo per essere vittime di un genocidio fosse la discendenza ebraica. Ciò è pericoloso, ma non è un limite dei miei interlocutori, sono proprio il vocabolario e la memoria storica che sembrano definire questa cosa.
Io, che ritengo la memoria patrimonio universale, l’ho risolta così, quando mi domandano se era ebreo rispondo: prima o dopo la combustione?

La maggior parte capisce.

Gianni ::: 12 ottobre 2012 :::
::: Buona lettura :::

Roth, Spielberg e l’Olocausto

Se vi piace mettere il vostro cervello su insostenibili ottovolanti e la vostra coscienza in un frullatore, consiglio una micidiale accoppiata: Operazione Shylock, ultimo romanzo di Philip Roth e Schindler’s List, sette Oscar, l’ultimo Spielberg, quello diventato adulto. Da consumarsi uno dopo l’altro.

Roth ha scritto un romanzo che è una vertiginosa palude, proditoriamente fatta dilagare intorno a una voragine della coscienza, al triangolo delle Bermude di qualsiasi riflessione: la questione ebraica. Ci potete trovare di tutto, e tutto sotto la clausola dell’incorreggibile ambiguità. Gli stessi personaggi non sanno bene chi sono. Le idee si accavallano, equivalenti, hanno ragione tutti, non ha ragione nessuno. Parla il palestinese e stai con lui. Parla il sionista e stai con lui. Parla l’ebreo anti-israeliano e stai con lui. Chiunque parli, stai con lui. Una palude, dico. Con dei personaggi che fanno male. Cito testualmente: “Poi il 1967: la vittoria israeliana nella guerra dei sei giorni. E con questo la conferma, non della dealienizzazione, dell’assimilazione o della normalizzazione degli ebrei, ma della potenza degli ebrei: comincia la cinica istituzionalizzazione dell’Olocausto. E’ proprio qui, con uno stato militare ebraico vittorioso e giubilante, che la linea di condotta ufficiale degli ebrei diventa quella di ricordare al mondo, minuto per minuto, ora per ora, dalla mattina alla sera, che prima di essere stati dei conquistatori gli ebrei sono stati delle vittime e che sono dei conquistatori solo perché sono delle vittime “. Auschwitz come inattaccabile alibi per qualsiasi violenza e prevaricazione sociale e militare. Il grande businness dell’Olocausto, sfruttamento economico e ideologico dei sei milioni di vittime innocenti. Ne esce male perfino Anna Frank, librettino da nulla elevato a totem del complesso di colpa collettivo. Ci dà giù duro, Roth, e il fatto che in altre pagine dica esattamente il contrario, non significa nulla. In quelle pagine leggi quello, e il racconto di un giro per i territori occupati, a Gerusalemme, rende quelle parole anche più pesanti. Non è che proprio le dimentichi, quando giri pagina.

Io me le sono ricordate guardando sui giornali la pubblicità di Schindler’s List, coi suoi bei sette Oscar. “Non c’è nessun businness più grande della Shoà” (p. 136, nel libro di Roth). Sono andato e ho visto. Bel pugno nello stomaco, nonostante Hollywood che fa capolino qua e là, nonostante il brutto finale a colori, nonostante i cattivi racconti con la superficialità solita del cinema, nonostante il Schindler da fumetti Marvel, una spanna più alto degli altri, spalle da supereroe. Nonostante tutto. Un bel pugno nello stomaco. Esci e pensi: bello o brutto non importa: quello è un film necessario.

Coscienza nel frullatore e cervello a fare giri della morte. Roth o Spielberg? O tutt’e due?

Dato che non ho risposte, appunto due annotazioni.

Prima: ti vedi passare alla tivù e sui giornali la realtà, per mesi, per anni, poi a inchiodarti con una violenza tutta particolare sono un best seller e un film da Oscar.

Ancora una volta: a prescindere da cultura alta o bassa, è il racconto della realtà che t’incunea la realtà nella testa, e te la fa esplodere dentro. I fatti diventano tuoi o quando ti schiantano la vita, direttamente, o quando qualcuno te li compone in racconto e te li spedisce in testa. Che vuol anche dire: raccontare non è un vezzo da dandy colti, è una necessità civile che salva il reale da un’anestetizzata equivalenza. Il racconto, e non l’informazione, ti rende padrone della tua storia.

E poi. C’è qualcosa, in quella storia dell’Olocausto, e in generale nella questione ebraica, che trascende la verità dei fatti. Quella storia noi l’abbiamo scelta come storia totem, come simbolo, come dato mitico. Sei milioni di morti è una cifra pazzesca, ma come ricorda la frase del Talmud che gli ebrei di Schindler incidono nell’anello d’oro che gli regalano “Chi salva una vita salva il mondo intero”. Vale anche il contrario: in una vita che muore, muore il mondo intero. Sarebbe desolante se la gravità dell’orrore fosse solo una questione numerica. E allora perché l’Olocausto e non le pulizie etniche in Iugoslavia o gli eccidi africani? Perché gli ebrei e non il barbone brluciato sotto casa? Uno o sei milioni, l’orrore è lì.

Io non so. Ma viene da pensare che nella granitica resistenza che l’Olocausto oppone a qualsiasi spiegazione, e la questione ebraica a qualsiasi soluzione, crepiti l’antica ingiudicabilità del mito: ferita non rimarginabile, che non  tramanda tanto qualcosa di veramente accaduto, ma il dolore accumulato per tutto il vero accaduto, in ogni dove.

Alessandro Baricco – Cronache dal Grande Show; Universale Economica Feltrinelli (1995)

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Com’eri bella Firenze

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Quanto mi sei piaciuta Firenze
La Firenze in cui ho vissuto
Dal 6 al 9 di novembre
Quanto mi sei piaciuta Firenze
Fossi sempre così

Quanto mi sei piaciuta – Il Generale

Dovrebbe essere la giornata giusta per scrivere una paginetta di pura nostalgia.
Io di solito la evito. La nostalgia è un veleno pericoloso, in certe dosi può essere letale a chiunque e fate attenzione pure a chi la somministra.
Questa volta però non ho resistito.

Per ora teniamo a bada i ricordi e atteniamoci ai fatti. Leggo sul giornale che c’è un Social Forum a Firenze. Novembre 2012. La prima sensazione è quella di leggere un necrologio e voglio scrivere qualcosa di diverso da un necrologio.

Ricorre l’anniversario del Social Forum Europeo di Firenze. Sono trascorsi dieci anni. Era novembre 2002, si era caldi di Genova e della Caporetto su scala mondiale che è stata l’attacco al WTC dell’11/09/2001. G.W. Bush governava l’America e si preannunciava un futuro di guerra e di terrore. Ma noi eravamo lì. Confusi quanto ti pare, ma convinti che ce ne potesse essere un altro. Eravamo tantissimi e tantissime e, mi pare giusto dirlo ora, eravamo bellissimi e bellissime.
Conflittuali, diversi fra noi. C’erano tutti o quasi dai disobbedienti ai linuxisti, passando per i mille canali del pacifismo, della cooperazione dell’antagonismo, del…
Fronteggiavamo un futuro in cui brutti uomini occidentali si spalleggiavano con brutti uomini islamici, per una guerra che avrebbe reso tutto più brutto, le idee, le cose, le persone, le religioni, la vita.
Noi invece, donne e uomini, tutti, eravamo bellissimi. Questo era un dato certo.

Sono passati dieci anni. La prima banale sensazione è: di già! Sì, di già.

Noi siamo rimasti bellissimi e bellissime. Ma il mondo è andato abbastanza per i cazzi suoi. Lo so che i movimenti pacifisti non sono mai riusciti, ad oggi, a fermare nessuna guerra. Lo so. Ma teniamo presente che il giorno che saranno in grado di fermarne una le fermeranno tutte.
Però non voglio parlare di questo, non qui.

Ecco questa volta nessuna considerazione politica. Voglio solo tradurre la sensazione che provavamo allora, ad un passo dalla fine di quell’esperienza incompleta ma esaltante che sono stati i Forum Sociali. L’aria di Firenze di allora. Fra chi stava dentro e chi stava fuori. Chi partecipava ai Workshop chi dissentiva dall’organizzazione, ma partecipava alla manifestazione. Chi criticava l’istituzionalizzazione. Chi il SF è meglio di nulla. Chi s’incazzava ai dibattiti. Chi portava da mangiare. Chi traduceva. Chi organizzava il media center (la grande novità dopo Genova). Chi ospitava gli stranieri che arrivavano a Firenze. Chi diceva che Firenze sarebbe stata devastata dai nuovi barbari.
E Firenze che non c’ha creduto. Ecco, ricordiamocelo. Firenze non c’ha creduto che i barbari fossero quelli, per quanto lo strillassero le penne e le facce prostitute della televisione. Firenze non c’ha creduto. Firenze lo sapeva che i barbari possiedono aerei che partono con pance gravide di bombe e che vanno a sganciarle per motivi che non c’entrano niente con la propaganda. Firenze non era stupida come si aspettavano quelle mezze seghe. Firenze era una donna bellissima che sapeva il fatto suo. Era di nuovo al centro del mondo. Urlava un nuovo rinascimento necessario. Ballava, sudava, dormiva nei posti più impensabili…
Dio com’era bella Firenze! Aveva vent’anni. Nasceva da una conchiglia. E profumava di fiori anche a novembre.

Gianni :::8 ottobre 2012:::

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Insoliti contenitori di “resistenza”

psicoimmagini serie 5 modificate con GIMP - Gianni Casalini 2012

Dentro quell’alter ego della rete che sono i social network molti di coloro che flirtano con l’idea di essere di sinistra cliccano “mi piace” su pagine collegate a siti web che sono contenitori di blog. Numerosi hanno da qualche parte nel titolo la parola resistenza, resistere o affini.

Anche io avevo messo fra le pagine che “mi piace” (le pagine piaciose?) una di queste. Ricevevo sulla bacheca condivisa un flusso copioso di link e vignette.
Link e vignette a go-go. Le vignette non male a dire il vero.
Ma… questo sarebbe resistenza?

A pelle mi sembra un’idea da adolescenti. O almeno roba da fase giovanile della rete, quando molti, io compreso, hanno creduto ad una battaglia quantitativa dei contenuti, in cui essendo stati tanti e tanto determinati avremmo vinto.
Niente di più ingenuo. Ma è successo un po’ di tempo fa.

Poi mi hanno detto che si tratta di reti di blog e mi è stato anche chiesto se faccio parte di qualche rete di blog.
No. Io tengo un blog. Ci scrivo, inserisco contenuti, però non sono in rete con altri blogger. In effetti è una specie di fanzine privata.
Non sono contrario per principio. L’idea di entrare in rete con altri/e potrebbe anche piacermi.
Ciò che mi dispiacerebbe invece è finire in qualche rete. -Per questo ringrazio Carla P. conosciuta al feminist blog camp a Livorno che mi ha fatto giustamente notare la differenza tra cadere sulla rete del circo e cadere nella rete dei pescatori.-
C’è rete e rete.

Siti web che si occupano di –resistere– e che sono in pratica dei contenitori di blog personali.
Anche qui: l’idea in sé non è brutta.
Voglio far notare una cosa: quando tutto è resistenza niente è resistenza.
Resistere è… fare la torta con la ricetta della nonna?
D’accordo in qualche accezione sarà pure vero. Però, quando queste accezioni diventano dominanti non si può parlare così alla leggera di resistenza. Il vocabolario potrebbe metterci a disposizione: buona pratica. Se ci sembra ancora poco possiamo definirla… che ne so… pratica resistente. Senza andare a scomodare coi discorsi il sonno dei combattenti della Resistenza o cose simili.

Mi si può dire: è un’idea tua. E’ vero, è un’idea mia. Non è una regola universale o un principio da scienza sociale o che ne so. In certi contesti delle buone pratiche divengono veri e propri atti di resistenza. Verissimo. Ma quei contesti sono contesti critici e sono riconoscibili senza nemmeno eccessivo sforzo.

Scrivere in rete quello che si pensa significa esercitare un diritto. Fra l’altro riconosciuto dalla costituzione. Quello di parola. Nessuno, almeno per ora, ci perseguita perché scriviamo delle idee sui blog, ad eccezione forse dei poteri criminali (e qui si aprirebbe un altro discorso) e quindi non capisco perché dei blogger che scrivono dei post in tono incazzato, e talvolta confuso, praticherebbero Resistenza.
Forse l’invito corale a moderare i toni, che rimbomba da una parte all’altra nella stanza del chiacchiericcio politico nazionale, ha fatto credere a qualcuno che non moderarli significhi essere guerriglieri?

Di tutto questo, comunque, me ne sbatterei, se non fosse che non credo alla neutralità della parola.
Lo slogan zapatista –le parole sono armi– non è un brandello di poesia. E’ realtà.
Lasciare sul campo armi spuntate o dannose per me significa danneggiare i reali tentativi di lotta o presa di coscienza di individui e gruppi.

In questi contenitori passa tutto e il contrario di tutto. Alcuni post sono interessanti. Altri insostenibili. Il livello degli interventi è diversissimo e il fatto che vengano presi a destra e manca non corrisponde al pluralismo, ma alla confusione.

E qui arrivo ai contenuti.
Mi sono letto un po’ di questi post di blogger resistenti. Ne prendo alcuni ad esempio e chiedo scusa se ce ne sono di migliori che non ho intercettato per motivi pratici (non passo la vita a leggere post).

Una se la prendeva con la raccolta di firme che sta portando avanti Saviano insieme a Repubblica per la (solita) proposta di legge anti corruzione ecc ecc. Il suo ragionamento era anche interessante. In sintesi diceva. In Italia si deve continuare a esprimere il fatto che non è lecito rubare i soldi pubblici o commettere illeciti. Quando questo dovrebbe essere scontato. Vero. Poi prendeva come metafora quella dei cartelli antincendio nei boschi. Vietato accendere fuochi. Per forza è vietato accendere fuochi nei boschi, c’è un bosco! Giusto. Però il titolo è: C’è un altro appello da firmare… fa rima con vai a cagare.

Mah.
Ora. Il mondo reale è un’altra cosa rispetto a quello che scrive lei, che sarebbe un mondo sottoposto ad una legge dell’evidenza universale. E’ fatto di rapporti di forza. Il motivo per cui ancora c’è chi raccoglie firme per proposte di legge è che quelle leggi non ci sono. O sono fatte in modo da non funzionare. Poi si può anche criticare l’idea che queste forme di lotta siano “efficaci”, abbiano un senso ecc. Certo.

Pasolini lo avrebbe fatto. Ma Pasolini lo avrebbe fatto facendoci vedere la situazione dall’alto. Ci avrebbe fatto spiccare il volo e ci avrebbe fatto vedere quello che la prospettiva ristretta delle cose ci tiene nascosto. E magari sarebbe arrivato a delle conclusioni nemmeno condivisibili, ma ci avrebbe dato qualcosa di prezioso: una prospettiva, una visione d’insieme. Qui no. Ci viene sbattuta la faccenda a distanza di naso e ci viene suggerito nelle orecchie, con tono livoroso: -Che cazzata!-.

Un altro blogger posta il discorso di Ahmadinejad all’ONU, copincollandolo dal sito della radio iraniana e senza una riga di commento. Che vuol dire? Che Ahmadinejad (un negazionista teniamolo presente) è di sinistra? Fa resistenza? Oppure era messo lì per indignarsi. Boh. Però ce lo potevi scrivere. Poi bastava un link.

Un altro ancora si incazza, anche giustamente, con la teppa giovanile, ma anche qui non si capisce, a parte lo sfogo, dove si vada a parare.

Alcuni sostengono la verità universale del debito di emissione. Attaccano la BCE, che, per l’amor d’iddio, la BCE sta sulle palle anche a me, ma non è una base aliena atterrata sulla terra. Anche io sono favorevole all’emissione di denaro sotto controllo pubblico. Ma che tutta la scienza economica si esaurisca in questo? Non ci credo. Tutto inizia e finisice nella lotta al Bankistan? Come ora va tanto di moda dire.

Alcuni invitano a fare come in Spagna, come in Portogallo, come in Grecia, come… Tutti in piazza tutti incazzati tutti contro… contro chi? Per chiedere cosa se lo chiede nessuno?

Di base c’è questa idea che le notizie non passano nei mainstreem allora la gente non s’incazza abbastanza. Vero. Ma non esaustivo. Vagamente infantile come visione. Fast-food delle idee. Qualunquismo di maniera?

Ovunque serpeggia una qualche teoria del complotto rimasticata e camuffata.
Per quanto mi riguarda questo non è fare resistenza.

Non voglio insegnare a nessuno a scrivere i propri post. Ognuno se li scrive come vuole. Io alcuni li ritengo veramente brutti, ma questa è un’idea mia. Il problema però non riguarda il fatto che siano brutti, ma dannosi.
Che senso ha questa salsa livorosa che ora è tanto trendy spalmare su ogni dettaglio? Qualsiasi ovvietà fatta cadere dall’alto e condita con indignazione costituirebbe un attacco al “sistema”?

Mi sembra una “resistenza” molto mediata da una cultura da Striscia la notizia. Una delle trasmissioni di regime più militanti, che in oltre un ventennio ha creato e inculcato falsi modelli di protesta, di indignazione, di rabbia. L’indignazione accanto al gattino che tira lo sciacquone.

Io credo che questi siano incazzati davvero, ma quando si scrive si ha il dovere di prendere sul serio quello che si sta scrivendo. Ciò che parte dalla pancia almeno un giro dalle parti della testa lo dovrebbe fare prima di passare al foglio bianco. Scrivere vuol dire mettere del tempo in mezzo. Respirare. Scrivere non è uno sfogo asfittico neanche quando esprime tutta la furia tempestosa del mondo. Essere incazzati è poco.
Non è mai stato così poco come oggi.

Non questa musica volevo dire e con questo volevo finire. Ma sento troppo il bisogno di aggiungere che dietro queste operazioni sento puzza di bruciato.
Poi sarà suggestione che vi devo dire.

Gianni :::ottobre 2012 :::

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A cosa stai pensando?

Beat Kitano

Stavo pensando che scripta manent, ma il gattino col cappellino, il cagnolino con gli occhialetti e il criceto che cerca di ingropparsi il pupazzetto ottengono sempre più diffusione rispetto a qualsiasi riflessione uno si sbatta di fare.

Stavo pensando ai palloni gonfiati. A quelli che non sopportano di vedere il prossimo in pace. Che c’hanno l’ego usuraio e se lo coprono con idee più grandi di loro.

A quelli dei favolosi anni ’60 che corrono a cento all’ora per veder la bimba sua… Che gli c’è rientrato di credere di esser bravi a far tutto, compreso la rivoluzione, mentre, invece, imparavano a scegliere oculatamente fra le offerte del mese al supermercato.

Poi pensavo a quelli che son critici e democratici a casa loro, ma gli altri si possono anche ciucciare qualche dittatura, purché anti-imperialista e farla poco lunga.

Pensavo che ogni cosa contiene anche il proprio contrario. Che siamo figli di tutto ciò che abbiamo fatto, ma almeno nipoti di tutto ciò che non abbiamo potuto fare.

Stavo pensando che c’è chi crede che basterebbe che ci incazzassimo tutti tantissimo.

Stavo pensando che tutto questo odio non è che sia servito poi a molto e che la stima si usura facilmente.

Poi stavo pensando anche a qualcosa che mi sono dimenticato.
Si vede che non era importante.

Gianni ::: ottobre 2012 :::

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Povera Patria

I soldi pubblici spesi per un mausoleo ad uno dei personaggi più infami della storia d’Italia: Rodolfo Graziani. L’articolo del corriere è molto ben scritto e vale la pena leggerlo per intero. Mi astengo dal commentare per non vomitare.

::: dal corriere.it :::
LA VERGOGNA DEL MONUMENTO AD AFFILE PER L’UOMO CHE DEPORTÒ NEI LAGER CENTOMILA LIBICI
Quel mausoleo alla crudeltà
che non fa indignare l’Italia
Il fascista Graziani celebrato con i soldi della Regione Lazio

«Mai dormito tanto tranquillamente », scrisse Rodolfo Graziani in risposta a chi gli chiedeva se non avesse gli incubi dopo le mattanze che aveva ordinato, come quella di tutti i preti e i diaconi cristiani etiopi di Debra Libanos, fatti assassinare e sgozzare dalle truppe islamiche in divisa italiana. Dormono tranquilli anche quelli che hanno speso soldi pubblici per erigere in Ciociaria un sacrario a quel macellaio? Se è così non conoscono la storia. [leggi tutto]

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