Il berlusconismo spiegato ai giovani

 

 (Della serie: Belle Epoche)

"Esiste, credo, un terzo gruppo di procedure che consentono il controllo dei discorsi. Non si tratta questa volta di padroneggiare i poteri ch’essi portano con sé, da di scongiurare gli accidenti della loro apparizione; si tratta di determinare le condizioni della loro messa in opera, di imporre agli individui che li tengono un certo numero di regole, e di non permettere così a tutti di accedervi. Rarefazione, questa volta, dei soggetti parlanti; nessuno entrerà nell’ordine del discorso se non soddisfa a certe esigenze o se non è, d’acchito, qualificato per farlo. Più precisamente: tutte le regioni del discorso non sono egualmente aperte e penetrabili; alcune sono saldamente difese (differenziate e differenzianti), mentre altre sembrano quasi aperte ai quattro venti e poste, senza preliminare restrizione, a disposizione di ogni soggetto parlante."

Michel Foucault -L’ordine del discorso-, 2 dicembre 1970

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Toscana Addio -Testo-

Toscana Addio (2006) è un omaggio a Remo Remotti e Allen Ginsberg. Tutto risciacquato adeguatamente in acqua d’Arno. La prima versione registrata la trovate qui.

Prossimamente metterò on-line la versione eseguita con gli Zio Vania @ Quaranthana, il 26 febbraio 2010, che credo essere nettamente superiore a quella registrata su base elettronica…

Intanto potete vedere le foto della serata.

Non c’è una versione definitiva del testo, si tratta di un testo contenitore e puo’ capitare che ne modifichi parti intere a seconda dell’occasione o dell’umore. Questo è il testo, in formato pdf, della prima versione registrata, sia in versione “leggibile”, che in versione stampabile.

Vuole essere un invito per corpi e menti allo sconfinamento . Il
messaggio è sempre lo stesso: -Allargate l’area della
coscienza!-

Gianni Casalini

(Toscana Addio. Testo e disegni: Gianni Casalini. Un ringraziamento
speciale ad Alessandro Ugolini per la pazienza e la competenza tecnica.)

toscana_addio.pdf

toscana_addio_versione_stampa.pdf

Materiale su youtube della serata:

:::Intro e caplypso blues:::

:::Goletta Flight:::

:::Toscana addio parte 1:::

:::Toscana addio parte 2:::

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Prima di Genova -2-

La domenica delle salme
gli addetti alla nostalgia
accompagnarono tra i flauti
il cadavere di Utopia
la domenica delle salme
fu una domenica come tante
il giorno dopo c’erano i segni
di una pace terrificante
mentre il cuore d’Italia
da Palermo ad Aosta
si gonfiava in un coro
di vibrante protesta…

-La domenica delle salme.-
Fabrizio De Andre


[continua da: Prima di Genova -1-]

Prima di Genova due grosse aree della società si trovavano a condividere gli stessi spazi e gli stessi tempi, a mangiare negli stessi luoghi, ad ascoltare la stessa musica, a leggere gli stessi libri e discuterne.
Queste aree non erano nette e definite, ma si potevano  comunque identificare ed erano l’area creativa e l’area politica.
Questo non succedeva da molto tempo.

L’area creativa era quella più giovane ed era figlia del riflusso edonistico degli anni ’80.
Per tutti gli anni ’80 e per buona parte degli anni ’90 sembrava che la contestazione politica, sociale o anche estetica, fosse stata definitivamente sconfitta dal super pompato edonismo dilagante.
Buona parte dell’edonismo reganiano, che aveva fornito una sponda "anti-ideale" per i giovani, mostrava i propri limiti e la vera natura di surrogato e di paccottaglia messa insieme da astuti strateghi dell’immagine e integralisti cristiani già da metà degli anni ’90; e non si parla di avanguardie culturali, ma della società nei suoi grandi numeri.

Una vita conforme all’estetica ufficiale appariva -patetica- anche a persone tutto sommato "normali" per stili di vita e abitudini, e quando un’estetica va in crisi si aprono vie di fuga creative in ogni direzione.
Il trend non era più dalla loro parte; dalla pubblicità, alla televisione fino alle major discografiche tutti andavano ormai a pescare nella controcultura: l’immaginario "ufficiale" si era rivelato una bolla speculativa estetica e aveva fatto la stessa fine del muro di Berlino.
L’edonismo reganiano e le sue "evoluzioni" non fornivano più una gestalt minimamente accettabile una volta tolto l’innesco della guerra fredda.

L’area creativa era costituita da quei "bravi ragazzi" che avevano studiato da bravi ragazzi, si erano fatti un percorso -bello tondo e ragionevole-, ma si erano anche rotti i coglioni e riprendevano, in qualche modo, un filo che si era interrotto con la parte più fantasiosa e marginale degli anni ’70. Talvolta si trattava di una continuità solo estetica o di una rielaborazione dei gusti. Ciò avveniva comunque in forma di ispirazione e non di riverenza.

Nei centri della politica erano presenti soggetti in cerca di rivalsa rispetto ai precedenti movimenti, soprattutto degli anni ’70, e spesso si portavano dietro dei rancori "vintage". C’erano anche coloro che gli anni dei movimenti li avevano annusati, ma erano troppo giovani per viverne la sostanza se non di striscio. La cultura che girava allora  nei centri della politica propriamente detta era già ampiamente superata da vasti strati della popolazione e, in buona parte, anche dai soggetti che si rifacevano a quella cultura. Se ciò può sembrare schizofrenico è esatto.

L’area creativa, per contro, credeva che una volta scoperto che Milano da bere era una panzana e -Drive In- una cazzata, sarebbe stato facile ed anche divertente rovesciare -il sistema-. Qualsiasi cosa si intendesse con questa parola.

L’area politica si scazzava per motivi strettamente politici, ma riteneva utile che ci fosse una massa di idealisti energici e variopinti da guidare contro i veri centri del potere.
Nei luoghi della politica era uno scazzo per "prendere la testa del corteo", ma c’erano anche molti e molte che non si accontentavano di essere il post di qualcosa e il pre di qualcos’altro e sperimentavano nuovi percorsi.

Quindi niente di nuovo?
Tutti pensano di essere superiori a tutti e la piazza che fa da contenitore per tante solitudini  non comunicanti?
Niente affatto, c’era una tensione positiva e se non mancavano i super strateghi che consideravano gli altri un groviglio di confusionari-idealisti lontani dalla scienza e dal verbo rivoluzionario, come non mancavano gli "yuppi-du" che riposti nell’armadio i panni da figlio di papà si atteggiavano a salvatori del mondo, la realtà era fatta prima di tutto di persone che vivevano esperienze trasversali, e la piazza era un contenitore secondario rispetto a quello che stava succedendo nella società.

In Italia c’erano delle specificità.
La prima demografica: le generazioni più numerose (il picco di nascite è del 1971) avevano allora circa 30 anni.
Le ragazze diventavano  protagoniste, in modo naturale e non mediatico.
Poi: i movimenti pacifisti, antinucleari ed ecologisti erano pure cresciuti dagli anni ’80 in poi ed era cresciuta anche un’area cattolica del dissenso.
Insomma tutti quelli che erano -marginalità-  erano andati avanti.
I centri sociali erano una realtà tanto diffusa quanto conflittuale e autoconflittuale che, se pur timidamente si apriva all’esterno.

C’era stata tangentopoli. Tutto un vecchio sistema di potere clientelare era imploso e ancora non se ne era stabilizzato uno nuovo. Questo aveva creato degli spazi liberi per l’espressione fino ad allora mai visti e da allora mai più visti in questo paese. Trasmissioni di satira in prima serata e non si parla di pupazzoni e risate registrate, ma di cibo per l’intelligenza…

Le reti informatiche globali non erano più un’ipotesi della fantascienza, ma una realtà che riguardava aree sempre più vaste del pianeta e si prevedeva non si sarebbe fermata. La realtà di una rete neurale mondiale e lo sviluppo dei processi di condivisione costituivano una novità assoluta piena di aspettative e di prospettive utopico-rivoluzionarie. Forse non del tutto mandate in cantina a tutt’oggi…

La frase che potrebbe riassumere quel periodo (e che in qualche modo coincide con il famoso slogan -Un mondo diverso è possibile-) era: non c’è nessun motivo logico per non cambiare la società. Questa idea era piacevolmente diffusa -soprattutto fra i giovani-, come dicono i giornalisti.

Ho parlato di due aree. Forse sarebbe stato meglio dire che c’era un area della contestazione e due canali.
Un canale strettamente politico e uno estetico-creativo. Dico canali perché erano il tramite, il canale, tra l’area della contestazione e il resto della società (allora c’era ancora qualcosa che si poteva chiamare società).
In generale si può dire che questi due "atteggiamenti" corrispondono a due diversi tipi di mente. La mente politica che -divide-, cerca la divisione, la tensione, il nemico, il diverso e ricompatta le fila dei propri ranghi e la mente creativa che -unisce-, cerca di creare mondi, ma anche generalizza, considera tutti appartenenti ad un grande progetto tende a rimuovere il conflitto.
Anche questa divisione non contiene la realtà, la rende categorica, ma può essere utile. Quantomeno la "indica".

 Per come la vedo io, ciò che succede quando i momenti storici si svuotano di terrore e si intravede un po’ di sole all’orizzonte è proprio la caduta delle rigidità schematiche nella mente degli uomini, rigidità che sono il cuscino comodo del potere. Qualsiasi potere.
Nei momenti storici in cui il presente è il tempo di costruzione del futuro e non solo la reminiscenza del passato, ciò che era rigido diventa sfumato, ciò che era pesante diventa leggero e le contaminazioni diventano protagoniste e portatrici di armonie. Il presente diventa un tempo realmente abitabile.
Questo succedeva prima di Genova 2001, il presente tornava ad essere un tempo realmente abitabile.

Questa è stata l’ultima -epifania- concessa ad una generazione cresciuta nel tempo storico occidentale.
Genova era una mattanza annunciata. Organizzata, voluta ma soprattutto annunciata. Dopo Genova c’era chi parlava di -inizio- in realtà Genova ha significato la -fine- del secolo precedente, del millennio precedente.
Da settembre 2001 questo cambio di marcia sarà chiaro.

Da allora il canale-creativo e il canale-politico continueranno ad essere -creativo- e -politico-, ma cesseranno il loro ruolo di -canale- con una società sempre più pressata, insicura, dispersa, instabile, precaria; la società del terrore. Ognuno riprenderà i propri linguaggi e guarderà con diffidenza l’altro.
La televisione assumerà in modo assoluto il ruolo educativo togliendolo del tutto a scuola e famiglia e omologando i comportamenti giovanili in un polpettone vitaminico di isteria/rassegnazione, evitando così eventuali "brutte" sorprese in futuro.

La salma, l’unica per solo caso, avrebbe mosso tutti i sensi di colpa e il desiderio di accusa di coloro che si trovavano sulla scena o che avevano qualcosa a che vedere con la scena. Era la cifra simbolica di una sconfitta, della perdita della giovinezza; che è la sconfitta per eccellenza.
Il potere mostrava di saper gestire l’universo simbolico e la percezione dei fatti in modo nettamente superiore al passato.
-L’hai ucciso tu!- pronunciato sulla scena dell’omicidio da un poliziotto rimane una delle frasi più precise e drammaticamente evocative che siano mai state pronunciate in un conflitto.

Si sperimentava anche un evento nuovo. Il falso in diretta. L’evento più ripreso, filmato e videotrasmesso nella storia d’Italia veniva falsificato in tempo reale; l’evento stesso forniva il materiale che sarebbe servito per raccontare la sua versione contraffatta.
La gestione del falso. Ciò che ancora oggi la massa dei telespettatori pensa sia accaduto in rapporto ai fatti, alle immagini trasmesse e al montaggio proposto rappresenterebbe una sorpresa se indagato adeguatamente.

La verità sui fatti sarebbe emersa, ma in un tempo sufficientemente lungo da non permettere la giustizia, secondo una pratica consolidata e ormai standardizzata, per cui si può appartenere ad un sistema che accetta e ignora i diritti umani: come un salmone che sta nell’acqua ma ne salta fuori a proprio piacimento.

Non mi dilungo oltre. Non volevo dire molto di più e anche se qualcosa, come sempre, mi sono dimenticato, il succo del discorso credo di averlo espresso.
Non ho parlato di politica, né di contrasti fra correnti, fra istituzionali e non, fra rappresentati e non rappresentati e così via perché non mi interessava. Altri lo hanno fatto e sono in grado di farlo meglio di me. Come non ho parlato di argomenti importanti, e ancora attuali, come il vecchio e il nuovo ordine mondiale, la sovranità alimentare, il debito, le rendite finanziarie, la precarietà sociale ecc. semplicemente perché volevo solo fare un volo su quegli anni e mantenermi nella zona né "oggettiva", né "soggettiva", a quell’altitudine che permette di scattare delle foto aeree che qualcuno, spero, potrà trovare suggestive.

Il mio saluto a chi ha seguito il filo del discorso fino a qui.

Gianni C.

 ~*~
Carlo Giuliani, 1978-2001
Carlo Giuliani (1978-2001) 
~*~
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Prima di Genova -1-

Ci sono tanti resoconti storici e dossier sui "giorni di Genova".
Si può dire che in quei giorni si faceva la storia in diretta, davanti le telecamere; questa sensazione elettrizzava tutti.
Secondo me quello che manca, ancora, per quanto riguarda Genova 2001, è un documentario che metta a confronto la realtà percepita tramite il montaggio dei media e quella ricostruita, ormai per intero, fase per fase, momento per momento.
Almeno credo che non ci sia.
 
Non parlerò di Genova, ma del periodo precedente.
Metto giù poche righe per fornire un punto di vista in più che i giovani, quelli per cui Genova è preistoria, possono utilizzare per farsi un’opinione. Nient’altro.

Prima di Genova c’era una generazione che aveva visto il crollo del blocco sovietico.
Può sembrare di parlare di Napoleone o delle guerre puniche, ma non moltissimo tempo fa il mondo era diviso, almeno geo-politicamente, in due blocchi, uno occidentale capitalista che si reggeva sull’ideologia liberale e uno orientale che si reggeva su un’ideologia stalinista. Poi c’erano alcune variazioni sul tema, ma in generale si può dire che fino al crollo del muro di Berlino il mondo è bipolare e la mente umana altrettanto, con seguito di eresie e ortodossie.

Teniamo presente che questo dualismo ha tenuto tutti occupati per mezzo secolo. Il cavallo di battaglia da entrambe le parti era un vasto arsenale nucleare sufficiente a distruggere il pianeta un numero imprecisato di volte. Arsenale che è sempre all’incirca lì ma è scomparso dalla percezione e dall’attualità.

Fra i pochi a dubitare del fatto che il mondo fosse "realmente" diviso in due blocchi c’era una corrente "artistico-rivoluzionaria" chiamata: situazionismo.
I situazionisti parlavano infatti di due forme diverse di -Spettacolo-, intendendo con questo termine non un’insieme di immagini, ma "un rapporto sociale mediato da immagini". Sostenevano che lo spettacolo occidentale era uno -spettacolo diffuso- e quello stalinista uno -spettacolo concentrato-.
Avevano anche previsto la fusione di questi due tipi di spettacolo in uno -Spettacolo Integrato-, che sarebbe quello che stiamo vivendo adesso.
I testi di questi autori sono liberamente consultabili perché rifiutavano ideologicamente la proprietà intellettuale e ognuno può  valutare per proprio conto il discorso.

Momentanea ristrutturazione del terrore.

Quello che interessa a me è solo far notare che non tutti erano pienamente convinti che la "realtà" fosse quella che i dati materiali grezzi sembravano esporre senza appello.
Sta di fatto che nel 1989 con il crollo del muro di Berlino venne sancito ciò che tutti sapevano: l’economia dei paesi dell’est era un fallimento totale. Quindi si parlava del fatto che sarebbero stati -inglobati- nel capitalismo. I situazionisti parlavano invece di fusione. Questo è singolare.
Una visione centrata sull’immateriale sposta l’asse di molte prospettive e apre diversi paradigmi a quanto pare.

Comunque l’equilibrio uscito dalla seconda guerra mondiale non era più nemmeno -rappresentabile-.
Venivamo da una situazione dove ci toccava una testata nucleare a testa e… la paura mangia l’anima, come dicono gli arabi.
La propaganda della guerra fredda era costituita da forme speculari della stessa retorica, mentre la propaganda del post-guerra fredda era unitaria: una cascata di fiori sulle magnifiche sorti progressive del pianeta ormai liberato da ogni terrore.
Risuonavano ad est come ad ovest le trombe della gioia.
Pur fradicio di ingenuità era un momento esaltante.

Quello che sfuggiva a molti era che a finire era soprattutto la dimensione euro-centrica del capitalismo uscita dalla guerra mondiale.
L’equilibrio che aveva visto: l’espansione economica dell’ovest, il congelamento dell’est e il giogo del nord sul sud, cambiava pelle.

Quindi nella visione ingenua i buoni avevano vinto senza combattere e i cattivi, -che poi così cattivi non son mai-, si erano arresi. Nella visione un po’ meno ingenua il capitalismo si globalizzava. Non è che non l’avesse capito nessuno, anzi.
A me interessa la visione ingenua delle cose. Nella visione ingenua il blocco comunista si era fermato come un’automobile che finisce la benzina. La corsa era finita.
La corsa era costata moltissimo in termini economici, era costata quanto una guerra mondiale "calda" e il prezzo, manco a dirlo, era stato fatto pagare -soprattutto- al sud del mondo in termini di risorse, ma anche al nord in termini di debito (da affrontare in comode rate).
Anzi ciò che univa il nord e il sud era il debito. Cosa che sarebbe apparsa chiara in seguito.

Il terrore fino ad allora era quello di una guerra termonucleare totale, e ci univa tutti in ogni angolo del pianeta.
E’ un po’ come quando fuori nevica e ci sentiamo tutti partecipi dello stesso tipo di esperienza.
Anche se questa sensazione, ad onor del vero, riguardava sopratutto noi occidentali; i russi nell’immediato erano più terrorizzati dalle numerose polizie segrete e gli altri magari avevano fame, miseria e malattie, e noi… avevamo paura della bomba atomica.
Il mondo si riempiva comunque di testate nucleari e si è vissuto mezzo secolo nel terrore. In un terrore equilibrato, scosso "solo" da conflitti periferici. Non si era mai provato un sistema così funzionale. Il terrore; non la guerra reale ma la sua ipotesi, incombente, statica, agghiacciante, permanente, terribile.
Se non si fa mente locale su questo non si capisce la facilità con cui a seguito dell’attentato alle torri gemelle dell’11/09/2001  negli USA è potuta passare con una semplicità disarmante una politica di aggressione militare mondiale, una serie di restrizioni delle libertà e ogni sorta di idiozia.

Noi, allora, eravamo fortunati assistevamo alla fine dell’equilibrio del terrore. Il terrore sembrava finito, l’impero del male si era consumato da solo!
Il periodo che va dal 1989 al 2001 è un periodo senza terrore. Di sicuro con molte incazzature, ma senza terrore.
La mente allentava la sua visione bipolare/dualistica. Questa era l’aria che si respirava in quegli anni.
Genova 2001 è frutto di quel periodo senza terrore.

L’occidente che ha paura delle moschee e l’islam del sultanato mondiale a luglio 2001 ancora non esistevano.  A novembre 2001  finirà il decennio senza terrore.

[continua]

 
Gianni Casalini 
 — 

Man Ray, Venere restaurata, 1936-1971, “assemblage”, calco in gesso e spago, 10 esemplari, 71 x 40, Milano, Collezione Schwarz

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La bellezza è negli occhi di chi guarda

 


-Se è giusta la mia ipotesi che nella categoria dei tuoi coetanei "obbedienti" trovino posto, e per primi, "coloro che erano destinati a morire" -cioè coloro che la scienza medica ha salvato dalla "mortalità infantile", e sono quindi dei "sopravvissuti"- Quale è la loro funzione pedagogica nei tuoi riguardi?
Che cosa ti insegnano col semplice loro essere e comportarsi?
La loro caratteristica prima -ti ho detto- è il sentimento inconscio che il loro essere venuti al mondo sia stato particolarmente indesiderato.
Il sentimento inconscio di essere "a carico" e "in più". Ciò non può che aumentare la loro ansia di normalità, la loro adesione totale e senza riserve all’orda, la loro volontà non solo di non apparire diversi, ma nemmeno appena distinti.-

Questo è l’inizio di un articolo del 1975 scritto da Pier Paolo Pasolini che si chiama: -Siamo belli, dunque deturpiamoci.-
A distanza di anni mi viene da rispondere alla condizione iniziale di Pasolini: non capisco fino a che punto questa ipotesi sia un pretesto.
Un pretesto per parlare dell’obbedienza; un tema che all’epoca suscitava ancora qualche interesse).
Ho provato ad utilizzare questo articolo come una vecchia chiave inglese trovata per caso in  fondo ad un cassetto e per capire se è ancora utile a smontare qualche pezzo di realtà.
Ho buttato giù degli appunti e li pubblico sul blog.
Sono solo appunti.

-Ciò che è buono appare, ciò che appare è buono.-
Intanto lo spettacolo giovanile attuale è l’ostentazione della **gioia** che ha accompagnato il proprio venire al mondo.
**Gioia** mostrata ballando, cantando o scodinzolando non più ad un virile condottiero, ma davanti a telecamere ed a furbe conduttrici televisive come a scivolose commissioni giudicanti.
Adesso la protagonista è la "gioia". La neo-gioia, direi. "Gioia" mostrata da genitori in prima fila e "amici" su "amici" che mostrano l’esistenza come una lotta all’ultimo sangue per decidere chi può stare sul palco e chi no. Chi è il protagonista e chi è lo spettatore.
Un’obbedienza fluida che non ha niente a che vedere né con la volontà di non apparire, né di non essere distinti di cui parlava Pasolini.

Almeno che non si consideri il mondo realmente rovesciato dove l’omologazione  sta nel mostrarsi e dove non apparire è diventato sospetto.
Chi non desidera apparire sopra ogni altra cosa, potrebbe nascondere qualcosa di tremendo: una mostruosità, un segreto, un’aberrazione.
In fondo l’obbedienza non è nuova a queste condizioni. Anche ai giovani nelle scuole d’Italia durante il fascismo si insegnava ad apparire, a distinguersi secondo quella retorica, in senso rigido, militare, violento.

Nella società spettacolare il palco è militarmente presidiato e lo spettacolo mostrato può essere perfettamente riprodotto nella vita di tutti i giorni da chiunque, essendo un format creato per questo motivo.
C’era ancora molto artigianato nell’informazione quando Pasolini scriveva quest’articolo e non si poteva sospettare la potenza del -format- contemporaneo. Credo.
Secondo me il primo in epoca moderna a capire la potenza del -format- è stato Freud. Che in fondo ci ha detto che viviamo nel format della nostra prima parte della vita. Poi s’è fatto prendere un po’ la mano.
Prima di lui c’erano le religioni, in particolare quelle abramitiche. Coi loro format tuttora in voga.

Ciò che scorgo alla base del discorso è: tutte le volte che viene prodotta in qualcuno la condizione di "sopravvissuto" si ottiene un agente dell’obbedienza. Chiaramente "il pastore", colui che vuole condurre il gregge si deve mettere dalla parte del -salvatore di patria-. Occorrono dei "sopravvissuti" che siano convinti che il soggetto della salvezza sia proprio quello.
Come il potere che è sempre il "salvatore" delle sciagure che provoca o di cui ignora le cause.

Questa è interessante. Per esempio siamo tutti sopravvissuti all’11 settembre. Il fatto di non essere lì e di avere avuto pochissime probabilità di passare sotto le torri gemelle quel giorno convalida l’ipotesi invece di invalidarla.
Quelli che sono morti, sono un numero sufficientemente alto e la loro morte è sufficientemente casuale da rappresentare l’immagine di un qualcosa di cui siamo stati graziati dal caso. Siamo tutti "sopravvissuti" al terrorismo, siamo "sopravvissuti" alle emergenze e Dio sa quante ce ne sono ad ogni ora del giorno e della notte.

Questa stranezza si può spiegare come passaggio dalla società spettacolare alla società del terrore spettacolare. Cioè alla società del -sublime-; che non si accontenta più di prefigurare le proprie sciagure e la propria apocalisse, ma le produce in lontananza, o le cattura, in qualche luogo del reale, per riprodurne l’immagine su tutta la superficie.

Quello di cui stava parlando Pasolini non potrebbe essere qualcosa che può essere descritto o portato alla coscienza come -vivere nel peccato-?
Siamo tutti sopravvissuti al vulcano che non ci è esploso sotto il culo, ma non per questo ci sentiamo -colpevoli- o -peccatori-.
Non stiamo vivendo nel peccato per questo. Non ci defiliamo, ne ci mostriamo per questo. Il vulcano non è stato abbastanza pubblicizzato in televisione come: -emergenza vulcani estemporanei-; se lo fosse il discorso cambierebbe di brutto. Potremmo esserne riconoscenti alla protezione civile, per esempio.

Un "sopravvissuto" nel senso attribuito da Pasolini al termine è invece uno che vive in qualche peccato. Si sente "a carico" e "in più", si sente "in casa d’altri", ma per questo non c’è nessuna condizione oggettiva necessaria, ad eccezione della storiellina del peccato originale, forse. Oppure tutte, basta saperle sfruttare. In pubblico come in privato.
Sì, l’intervento della scienza può avermi salvato grazie all’incubatrice, ma anche il fatto che l’URSS abbia deciso di fare bancarotta senza che qualche generale spalmasse l’occidente di testate nucleari ha la stessa validità.

Interessante è la propaganda che ha girato intorno alle ultime guerre. Propaganda a cui possono fare riferimento entrambe le "placche culturali" dell’ultimo conflitto di civiltà messo in scena: quella islamica e quella occidentale.
Questo conflitto produce i campioni della "resistenza" alla perdita di identità collettiva e individuale da entrambe le parti. Campioni speculari.
E’ curioso che per rendere credibili le parti in lotta  i valori della laicità vengano fatti passare come -prodotto- della religione cristiana. Nel sentire comune adesso sono le chiese che hanno permesso l’emancipazione femminile, le libertà dei costumi e quella d’espressione.
C’è un pacchetto difensivo che comprende dalla minigonna al crocifisso, passando per il bigliettone verde ($) su cui c’è scritto "In God we trust". Questo pacchetto è valido per entrambi le parti.

L’ipotesi di Pasolini mostra alcuni aspetti validi per la nostra epoca: l’obbedienza ad un qualche tipo di spettacolo o di gestalt o civiltà, avviene con maggiore facilità in quei soggetti che sono stati "salvati", o credono di essere stati salvati, da una qualche istituzione di questo spettacolo o gestalt o civiltà.
Si deve essere salvati da qualcosa di cui -si ha notizia-.
Può essere creata la notizia per creare dei "sopravvissuti" e riprodurre questo -effetto docilità- indipendentemente dal rischio reale.
-Docilità- oggi significa apparire o tentare di apparire secondo le regole di format soggetti a continui aggiornamenti, simili a quelli dei programmi informatici.
Fornire l’aggiornamento -di ciò che si può fare e di come si può fare- è compito del sistema dell’informazione ormai privata di valore comunicativo. Aggiornarsi è compito individuale; un neo-dovere di cittadinanza, o un dovere di neo-cittadinanza se si preferisce.
Format oggi è sia il reality di punta che costruisce identità fornendo modelli di relazioni, che l’insieme delle reazioni mostrate per un fatto reale come il terremoto in Abruzzo.
Gli eventi che costituiscono calamità o rischi reali: delinquenza, terremoti, attentati o malattie possono essere ricucite in uno pseudo-continuum che è lo spettacolo dell’emergenza, di cui si da continuamente notizia, come contro altare allo spettacolo della distrazione e della gioia.
Questo meccanismo non è nuovo, è tipico delle religioni strutturate intorno all’idea di peccato e può essere usato da centri di potere come da individui.

Per oggi basta. Però prima voglio riportare l’ultima parte dell’articolo di Pasolini per allontanare dubbi di fantasmi eugenetici. Che mi sembra doveroso. [Gianni C.]

-Ho imperversato un po’ contro questi "destinati ad esser morti", col rischio di apparire un po’ vile e razzista: di creare cioè  una categoria di persone da proporre alla condanna.
No. Tra i destinati a esser morti ci sono esseri adorabili per lo meno come te, così vistosamente destinato alla vita. Se ho polemizzato con particolare violenza contro gli insegnamenti che ti impartiscono i "destinati ad esser morti", è perché ho preso questa categoria a simbolo della media: media che ti insegna, appunto, queste stesse cose, e senza quel tanto di disperato che le corregge, le giustifica, le rende umane.-
[P.P. Pasolini 29 maggio 1975]

 
Immagine: In my hand, di Marco Falchi 
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Soul Kitchen

"Il viaggiatore non ha ancora raggiunto la sua meta finale."

Dal film

Soul kitchen di Fatih Akin. Con Adam Bousdoukos, Moritz Bleibtreu, Birol Unel, Anna Bederke, Pheline Roggan.
Commedia, durata 99 min. – Germania  2009.

Ho letto una volta un’osservazione sulla differenza fra opere belle e opere importanti; mi sembra si trattasse di G. Bateson e prendesse ad esempio -la capanna dello zio Tom- come opera importante. E’ passato del tempo e non sono sicuro.
In ogni modo questa differenza mi è rimasta in testa e tutte le volte che osservo un’opera o leggo un libro la tengo presente.

Edoardo Becattini scrive come sottotitolo alla sua recensione su mymovies.it:
"Una commedia furbissima che mescola buoni sentimenti, alta cucina e musica di prima scelta".
La recensione (vale la pena leggerla) è ben scritta e molto critica su questo "tipo di cinema" che Becattini descrive così:

"Akin pone attenzione ai corpi e ai loro bisogni primari: dal cibo al sesso, dall’alcool alla danza (passando per il mal di schiena), così che i suoi personaggi, liberati dalla necessità di affrancarsi dal proprio retaggio culturale, agiscono nel nome di un puro principio di piacere. Allo stesso modo, punta all’occhio e al ventre dello spettatore: costruisce il suo film come un piatto sofisticato di nouvelle cuisine, o meglio, come una playlist di musica accattivante, facendo molta attenzione a creare mediante una serie di gag fisiche una sinergia fra movimenti dei personaggi, movimenti di macchina e ritmo dei brani della colonna sonora. È una strategia molto furba e molto ricercata, elaborata da un regista che ha già compreso le tendenze del nuovo cinema della post-globalizzazione (vedi The Millionaire): le storie che intrecciano società multietniche, una regia dinamica, buona musica e un lieto fine sono destinate a vendere (e incassare) in tutto il mondo."

Trovo quanto scritto da Edoardo Becattini vero, ma inesatto.
Dal mio punto di vista quanto scritto sopra può essere ribaltato.
Se ci fosse un punto di riferimento assoluto che pone un film costruito come una playlist su un piano inferiore ad un opera della nouvelle vague il discorso filerebbe liscio. Io, invece, credo che la realtà non regga nessun finalismo, nemmeno estetico, e che che l’estetica possa, talvolta, essere funzionale al significato, al senso di una comunicazione e che se questo rimanda al bios, al fisico, alla natura, quello che emerge è: l’anima, nel senso più laico e più religioso possibile. Questa unità è persa nella nostra cultura e si ritrova solo in qualche preziosa espressione come, ad esempio, la Soul music americana, che è la vera protagonista del film.
Dal punto di vista bio-politico "Soul Kitchen" è un film importante, quanto da un punto di vista "politico-estetico" può essere considerato un film -furbo-.

Il fatto che il protagonista sia un greco-tedesco (e anche questo può essere visto come una furbata), è significativo per un regista turco-tedesco.
Quello di Akin è un film esplicitamente "easy" e post globalizzato;
è pieno di citazioni, miscelate appunto come in un piatto di cucia melting pot, ma mantiene sempre la propria visione lucida senza mai diventare un polpettone mega-mixato.
Si intrecciano storie che riguardano il bios delle persone in un europa che vive passioni, e non solo tensioni, che fa pesante ormai definire ancora -multietniche-.
Ricorda da vicino le storie e la comicità di Daniel Pennac e anche i
personaggi hanno molto a che vedere con la saga di quest’autore francese, a partire dal protagonista -Zinos- che è parente stretto di quel Benjamin Malaussène che in molti abbiamo letto e amato.
Direttamente o indirettamente la comicità deve molto a Stefano Benni.

Quello di Akin è un film importante perché è un film di un’Europa che cerca un’anima e la cerca a partire dai bisogni primari, vitali, fisici, sensibili.
"Se non ha un’anima non è la mia Europa" sembra dirci Akin… fra patatine fritte e sveltine, fra sfiga e fortuna: quello che conta è sempre il suono dell’anima, la danza del corpo.
L’etimo di -anima- deriva dal greco -anemos-: vento, soffio.
Derivano da -anima- sia -animale-, che -animare, animato-.
Il legame fra queste tre parole è giocato nel film come se si trattasse di una parabola sufi; l’estremamente semplice si fonde con le profondità dell’anima come nelle storie sufi, dove Dio è chiamato -l’amico-… e se l’Europa del nostro tempo ha un poeta sufi, furbo o meno che sia, quello è Fatih Akin.

Gianni Casalini

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In concerto con gli Zio Vania

Venerdì 26 febbraio ore 22, Teatro Quaranthana, San Miniato -Pisa-:

ZIO VANIA A TEATRO

Necessaria la prenotazione allo 0571462825/35 entro qualche giorno prima (il teatro è piccolo)!!!
Biglietto: 5 euro

"Se su un piano musicale -Zio Vania a teatro- rappresenta la riduzione in
formato semiacustico di una parte del repertorio della band, a livello
concettuale si tratta di una riflessione sull’idea di radici, di identità
culturale e di libertà espressiva, che si snoda attraverso le musiche e i
testi delle canzoni, le parti di reading e le immagini proiettate. "

GABRIEL STOHRER- voce, chitarra
MATTHIAS STOHRER- voce, basso, bass-synth
NATCHEZ- chitarra, bastone della pioggia, spoken word
STEFANO NASSI- percussioni

Voci reading: GIANNI CASALINI, FABIO CASALINI, Natchez

"Zio Vania nasce nel 2003, ma si assesta e trova una sua compattezza musicale
soltanto nel settembre del 2007, momento a partire dal quale inizia per gli
Zii un’intensa attività live, sia con la formazione elettrica canonica che
in versione acustica. La sua ormai collaudata ricetta si chiama
funkyreggaerock. Come il simpatico cavernicolo che ha ispirato il nome della
band -l’indimenticabile personaggio del libro The Evolution Man di Roy
Lewis- il gruppo si nutre voracemente delle sonorità dei decenni precedenti
(con un debole per il rock anni ’70) ma innesta spesso nei suoi brani spunti
moderni. Così facendo il gruppo riesce a creare una miscela che presenta
tratti dalla musicalità ancestrale, scandita da ritmiche quasi tribali,
arricchita qua e là da costruzioni armoniche mai scontate; il tutto
all’insegna di una programmatica immediatezza, svincolata da qualsiasi
etichetta o moda passeggera. Nel 2008 Zio Vania ha vinto due concorsi
musicali (Cuoio e Nuvole e In Erba) ed ha inciso un demo autoprodotto. Nel
2009 è arrivato primo al contest -Chi fermerà la musica- ed ha cominciato ad
incidere l’album d’esordio -Flow-, che uscirà nell’aprile del 2010. "
www.myspace.com/ziovania

Foto: Pza Farinata degli Uberti, Empoli -G. Casalini-

Il mio ziovaneggiamento sarà la lettura di Toscana Addio in versione live…

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Il rumore degli imbecilli

 
Se mai qualcuno capirà

sarà senz’altro un altro come me 

Rino Gaetano




~*~
Se forme diverse della stessa imbecillità si affrontano sotto la maschera della scelta totale è perché tutte si basano sull’intelligenza reale rimossa.

Coltivare una qualche forma di intelligenza è un buon sistema per essere odiati, anche se di solito basta molto meno.

L’imbecille ha poche occasioni per soffrire di solitudine.

Opposti. Per formulare giudizi occorre usare almeno una coppia di opposti.

Lo stupido tende ad essere categorico. Anche se stringi stringi si arriva sempre a -mio buono-, -tuo cattivo-.
L’imbecille trascende la stupidità e usa una sola coppia di opposti: puro/impuro.
Il suo ego è andato in peritonite.

 
Gianni  C.

~*~
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Fottiamoci , anima mia

 
I

Fottiamci, anima mia, fottiamci presto
perché tutti per fotter nati siamo;
e se tu il cazzo adori, io la potta amo,
e saria il mondo un cazzo senza questo.

E se post mortem fotter fosse onesto,
direi: Tanto fottiam, che ci moiamo;
e di là fotterem Eva e Adamo,
che trovarno il morir sì disonesto.

– Veramente egli è ver, che se i furfanti
non mangiavan quel frutto traditore,
io so che si sfoiavano gli amanti.

Ma lasciam’ir le ciance, e sino al core
ficcami il cazzo, e fà che mi si schianti
l’anima, ch’in sul cazzo or nasce or muore;

e se possibil fore,
non mi tener della potta anche i coglioni,
d’ogni piacer fortuni testimoni


Pietro L’Aretino, Sonetti Lussuriosi

 
~*~
 

Nota e maledizione
: Possano bigotti e bacchettoni d’ogni risma, sesso, razza o religione ardere nel foco che lor stessi, con gran fracasso o di nascosto, voglion preparare per bruciare bellezza oppur ragione.

Che celere li consumi pria che il mondo assomigli a lor tanto amata prigione!

Gianni C.
~*~


I
llustrazione Paul Avril (1892)

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Fantasie mediterranee

"La cosa forse vi stupirà, ma non sono un viaggiatore. Appartengo all’erranza.
Essere di un altro posto cambia tutto." 
 Jean-Claude Izzo
 
A volte capita di navigare fra associazioni mentali.
Per esempio, un amico mi manda il link di un articolo di repubblica dal titolo:-La Grecia sull’orlo del crac con lo spettro della violenza-.
Inizia così:"«La Grecia non è il Dubai, non siamo in bancarotta», assicura il premier George Papandreou. «Camminiamo su un filo, d’accordo, ma le banche estere non hanno niente da temere», gli fa eco il ministro dell’economia George Papakonstantinou."

L’articolo è del 12/06/2009. Il giorno del primo anniversario dell’uccisione da parte della polizia ellenica di Andreas Grigoropoulos.
Episodio tutt’altro che chiaro.
L’articolo continua con: "Il governo lotta contro il tempo per mettere a punto una finanziaria credibile in un’Atene blindata da 6mila poliziotti per il primo anniversario, oggi, dell’uccisione di un 15enne nel quartiere anarchico di Exarchia: dopo i primi scontri, ieri sera, sono state arrestate 12 persone, tra cui cinque italiani. E ora i mercati, preoccupati che Bruxelles abbandoni il paese al suo destino, ha iniziato a sognare l’arrivo in soccorso del più improbabile dei principi azzurri: la Cina."

Dice che il mediterraneo sia la culla della civiltà e della democrazia.
A me sembra un bel posto, ma di quelli poco chiari, che non arrivi mai veramente a capo di niente.
Continuo a leggere: "L’asse tra Atene e Pechino, via mare, c’è già. Da quando nel 2008 Karamanlis ha ceduto in gestione per 35 anni alla cinese Cosco il cuore del porto più antico del Mediterraneo, incassando 3,4 miliardi di euro."

Per la precisione nel novembre 2008 viene firmato l’accordo da Karamanlis. A dicembre viene ucciso Andreas Grigoropoulos, seguono gli scontri.

La Cosco. Io ho sentito parlare della Cosco in Gomorra di Roberto Saviano.
Infatti scrive Saviano nel primo capitolo del libro intitolato appunto -Il porto-:

    "Il solo porto di Napoli movimenta il 20 per cento del valore dell’import tessile dalla Cina, ma oltre il 70 per cento della quantità del prodotto passa di qui. È una stranezza complicata da comprendere, però le merci portano con sé magie rare, riescono a essere non essendoci, ad arrivare pur non giungendo mai, a essere costose al cliente pur essendo scadenti, a risultare di poco valore al fisco pur essendo preziose. "

   "Nel porto di Napoli opera il più grande armatore di Stato cinese, la COSCO, che possiede la terza flotta più grande al mondo e ha preso in gestione il più grande terminal per container, consorziandosi con la MSC, che possiede la seconda flotta più grande al mondo con sede a Ginevra.
Svizzeri e cinesi si sono consorziati e a Napoli hanno deciso di investire la parte maggiore dei loro affari. Qui dispongono di oltre novecentocinquanta metri di banchina, centotrentamila metri quadri di terminal container e trentamila metri quadri esterni, assorbendo la quasi totalità del traffico in transito a Napoli."

   "A Napoli ormai si scarica quasi esclusivamente merce proveniente dalla Cina, 1.600.000 tonnellate. Quella registrata. Almeno un altro milione passa senza lasciare traccia. Nel solo porto di Napoli, secondo l’Agenzia delle Dogane, il 60 per cento della merce sfugge al controllo della dogana, il 20 per cento delle bollette non viene controllato e vi sono cinquantamila contraffazioni: il 99 per cento è di provenienza cinese e si calcolano duecento milioni di euro di tasse evase a semestre."

Svizzeri e cinesi uniti nel porto di Napoli; niente razzismo, ma flussi, flussi di merci, flussi di spazzatura, flussi di denaro. Flussi. Porti e flussi.
Napoli è molto mediterranea. Un po’ araba, un po’ spagnola, un po’ furba e un po’ fessa. Ci sono gli americani armati fino ai denti. Ci sono i camorristi armati fino ai denti. Ci sono pure gli svizzeri e i cinesi che gestiscono il porto. C’è la costa, la Cosco e le cosche.
Poi c’è l’esercito mandato lì per le strade con funzione di controllo.
C’è la pizza più buona del mondo.

Continuo con l’articolo e trovo: "ora la Cosco vuole moltiplicare per cinque la capacità del Pireo in cinque anni e si muove già come fosse a casa sua. Lo sbarco sui moli di fronte all’isola di Salamina potrebbe però essere solo il primo passo. La strategia dei cinesi sullo scacchiere estero è chiara. Africa docet. Si presentano con il libretto degli assegni in mano nei paesi in difficoltà. E a colpi di renminbi (le leggi del capitalismo valgono anche per i comunisti) riscrivono gli equilibri geo-politici. Atene è un candidato ideale. Il costo del debito è schizzato alle stelle (l’anno prossimo ci sono da rifinanziare 52 miliardi di bond)."

Falliscono tutti. Falliscono le aziende. Falliscono gli stati e non nel mediterraneo, anche in posti molto più freddi e insospettabili come l’Islanda. Falliscono le banche. Forse fallisce anche la banca delle banche. Fallisce l’Illinois.
Sembra una fallimentocrazia.

L’Algeria è piena di cantieri che il governo commissiona a ditte cinesi che portano la loro manodopera direttamente dalla Cina al nord-africa. Flussi di schiavi.
Questa è una cosa un po’ strana che mi sembra ci porti veramente in una dimensione nuova. E’ la prima volta, che io sappia, che la potenza su cui si regge l’economia mondiale è anche esportatrice di manodopera a basso prezzo.

Siccome in Algeria il tasso di disoccupazione è un po’ altino succede che spesso ci siano dei contrasti fra le due comunità, che, non raramente finiscono a mazzate.
L’Algeria è una "democrazia" tra virgolette. Sistema che sta venendo di moda anche dall’altra parte del mediterraneo, la nostra.
Un’oligarchia al potere garantisce la "democrazia" per pochi e la miseria e una specie di sharia per molti. Un sistema basato sui servizi segreti. Sistema che le classi dirigenti devono aver ereditato dal vecchio oppressore coloniale, la Francia.

Il mediterraneo è un posto dove le virgolette sono d’obbligo. Tranne quando ci si tuffa in mare in qualche caletta magari su una delle belle isole di questo mare, sperando che una nave di rifiuti tossici non sia stata affondata proprio lì davanti da qualche economia criminale.
E’ sempre in agguato un processo di virgolettizazione nel mediterraneo.
Democrazia tra virgolette, diritti tra virgolette, giustizia tra virgolette. Dignità tra virgolette. Pace tra virgolette. Raramente negati, spesso virgolettati.

Isole. Le isole secondo me sono qualcosa di strano, vivono un’eterna deriva, hanno una fragilità intrinseca e sono mentalmente afflitte da dualismo dispotico. Alcune isole vivono una storia colonialista, come la Gran Bretagna e il Giappone. Più spesso le isole diventano colonie, come le Filippine, l’Irlanda, la Corsica e  così via.

Il Jaka, dal vivo, introduce -benvenuti in Sicilia-, un pezzo contro la costruzione del ponte sullo stretto, con acuta assonanza: "non serve a unire le due coste, ma le due cosche!".
In effetti un’isola non è una posizione gran che strategica per una cosca. Qualsiasi merce c’arrivi devi comunque portarla in continente.

Milioni di orsacchiotti di peluche cinesi che escono dai container e invadono l’isola e si mettono a correre verso Messina dove c’è ad attenderli un imbarco.
Il massimo sarebbe portare l’Italia al crac economico con le spese del ponte, cedere i porti ai cinesi e farsi ricapitalizzare dagli stessi cinesi. Questa è solo fantasia, l’ammetto.
Presto scacciamo la parola default dall’Italia.

Crocevia di popoli e merci. Quando si parla del mediterraneo va sempre usata, almeno una volta, questa frase retorica.
Tomba fluida di esseri umani in fuga verso la "civiltà".
Miraggio un po’ azzurrino da osservare in lontananza mantenendo un senso di diffidenza.

 Gianni C.

Nota: Questo è uno scritto di fantasia e non ha valore scientifico

Grazie a Hal e Serena per alcuni spunti. 

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