L’ottuso e la paura

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Frugando tra vecchi appunti ho trovato questo

L’ottuso viene confuso con lo stupido, ma l’ottuso e lo stupido non sono sinonimi. L’ottuso vive negli estremi e quindi sguazza nella pozzanghera del pensiero categorico. Un mare che vuole sempre calmo e senza increspature. Altrimenti si arrabbia. L’ottuso è facile agli scatti d’ira.
Rifiuta la fatica di valutare caso per caso e attimo per attimo ciò che accade nella vita. Disprezza il dubbio. Ama il fideismo.

Se viene colpito da un immagine terrificante, continua a proiettarla su tutti coloro che hanno qualche caratteristica (anche marginale) riconducibile a quell’immagine. Generalizza sempre e comunque. Così va veloce. Riflettere rallenta.

Se la TV, ad esempio mostrasse immagini di giovani che lo preoccupano, l’ottuso proietterebbe quelle immagini su ogni giovane in carne ed ossa. Può essere disposto pur tuttavia a lodare la devianza di qualche bravo giovane dalla categoria che la sua mente ottusa ha introiettato e reso assoluta. Così per chiunque altro.

Quello che conta è non mettere in discussione il …”metodo”. Chiunque può evocare una categoria. L’ottuso scarta la sua esperienza se non rientra nelle categorie generalmente accettate. E’ categorico. Riflettere è dolore.

Le sue caratteristiche convergono in una certa forma di squallore che potrebbe, ma soprattutto vorrebbe, essere giustificata dal sentimento della paura. Ma lui non è ottuso perché ha paura. Ha paura perché è ottuso.
L’ottuso ha qualcosa a che vedere con l’inquisitore con cui condivide la passione per il pensiero categorico e la certezza di schierarsi dalla parte del più forte. Reagisce alle persone identificandole con categorie generali già viste. Applica sempre il principio che -nel peggio ci sta il meglio-. Che nel peggio ci sta tutto. Così facendo crede di -starci dentro-. In verità nel peggio ci sta lui. E nemmeno troppo largo.

L’ottuso di sinistra ha categorie di sinistra, quello di destra categorie di destra e così via. Ogni ottuso ha un antagonista apparente nell’ottuso di segno opposto. Ma il nemico reale dell’ottuso è chi non generalizza, non nasconde agli altri, non mente a se stesso. Il nemico di chi è ottuso è chi è acuto.

[GC :::2007:::]

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Shock economy & AIDS politik

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“Friedman imparò a sfruttare uno shock o una crisi su larga scala verso la metà degli anni Settanta, quando fece da consigliere al dittatore cileno, il generale Augusto Pinochet. “
Dall’introduzione – Shock economy; Naomi Klein

C’è un libro che ho citato spesso e di cui voglio consigliare la lettura a tutti. Si capisce da titolo che mi riferisco a Shock Economy (2007) di Naomi Klein. Shock economy è un libro indispensabile per capire il neoliberismo; per capire il nostro presente; per capire come le teorie di Milton Friedman e della sua cerchia di discepoli abbiano agito nello spazio e nel tempo a partire dagli anni ’70 e perché pesino come un macigno sulla nostra testa. Il linguaggio giornalistico lo rende di facile lettura e immediata comprensione. Cosa oltremodo apprezzabile.

Molti pregi. Partendo dal concetto di Shock in psichiatria, Klein, mostra come lo Shock collettivo e individuale sia indispensabile al capitalismo finanziario o di rapina, che dir si voglia, per raggiungere i propri obiettivi. Cioè per realizzare enormi profitti in tempi brevissimi attraverso vere e proprie strategie di saccheggio. Ci mette davanti un campionario incredibilmente vasto di casi, episodi ed eventi storici che secondo la lente della cronaca sarebbero rimasti privi di ogni spiegazione razionale.

Mentre leggiamo il libro possiamo mettere da parte la solita zolfa mediatica con le sue spiegazioni da cartoni animati. Di solito si rimane semplicemente perplessi dalla serie di eventi che si presentano alla cronaca e si è costretti ad attribuire cause ed effetti al fato. Divinità sempre tenuta in gran conto dal sistema di potere. Il fato non c’entra, ci spiega Naomi Klein e lo fa con una precisione e una documentazione sterminata e puntuale.
Chi avesse uno sviluppo mentale che non si è fermato ai cartoni animati si sentirà subito meglio.

Che cosa hanno in comune l’Iraq dopo l’invasione americana, lo Sri Lanka post-tsunami, New Orleans dopo l’uragano Katrina, le dottrine liberiste della Scuola di Chicago e alcuni esperimenti a base di elettroshock finanziati dalla Cia negli anni cinquanta?
L’idea che sia utile fare tabula rasa per costruire da zero una mente, un tessuto sociale, un’utopia: quella del fondamentalismo capitalista del libero mercato.
[Dall’ultima di copertina]

Qualche difetto (o, meglio, qualche precauzione). Essendo un testo che tratta di economia e di politica e che getta una luce su eventi “oscuri” (stupendi i capitoli su piazza Tienamen e sulla Russia golpista post-sovietica) si può tendere a considerarlo un libro esaustivo. Lo è anche, ma dentro la propria griglia di lettura. La visione della Klein contrappone il neoliberismo, o capitalismo di conquista, al welfare Keynesiano visto sia come nemico pubblico numero uno per le dottrine economiche di Friedman e, in un certo senso lo ripropone come soluzione ai problemi di un mondo preso nella deriva neoliberista.

Personalmente ritengo che le politiche Keynesiane vengano abbandonate progressivamente dal capitalismo man mano che risultano superflue al mantenimento dell’ordine interno. Ciò non toglie che vada pensato un nuovo welfare e una nuova lotta. Ma qui il discorso sarebbe altro e lascio ognuno alla propria riflessione. Buona lettura.

Shock Economy -L’ascesa del capitalismo dei disastri; Naomi Klein, BUR Rizzoli 24/7

AIDS politik. Questa è una divagazione sul tema. Un libro che manca, che potrebbe essere scritto, ma che non lo è, perché quelli che scrivono i libri preferiscono parlare della decadenza dei costumi.
AIDS politik è un pensiero che mi venne quando lessi il libro e che metto qui in coda. Come personale appendice.

La Klein accosta giustamente lo shock e la finestra di opportunità che ne segue con l’economia, manca secondo me un approfondimento per quanto riguarda la politica.

Se il trauma è il paradigma economico di questo capitalismo, io vedo il paradigma dell’agire politico nel meccanismo biologico del retrovirus HIV3. Il responsabile della sindrome conosciuta come AIDS o SIDA.

[Ci sono teorie contrastanti sull’AIDS. Alcune divergono nettamente dalla versione ufficiale accettata dalla comunità scientifica che considera la sindrome da immunodeficienza acquisita conseguenza dell’infezione da retrovirus HIV3. Questa non è una trattazione scientifica sulla patologia. Non entro nel merito dell’argomento. Il paragone si basa sulla teoria virale che è quella ufficiale, solo perché ritengo interessante la metafora.]

Descrivo il meccanismo di propagazione di un virus in breve. Se sapete già come funziona pazienza.
Un virus è il più semplice essere vivente, talmente semplice che non ha niente di suo, a parte una “matassa” di codice genetico da “sparare” in una cellula ospite e dentro la quale utilizza tutto ciò che la cellula ospite gli mette a disposizione per replicarsi in numerose copie. Una volta riprodotto in abbondanza causa l’esplosione della cellula ospite e si libera nell’ambiente in cerca di altre cellule da infettare. Un virus può essere paragonato ad un cd che ha il solo scopo di masterizzarsi…

Il virus HIV3 è un retrovirus, una categoria piuttosto antica di virus che si replica tramite l’utilizzo del codice RNA e non del codice DNA.
Ma ciò interessa relativamente per questo discorso.

In parole povere: un virus è una siringa di codice genetico. Di solito attacca un particolare target dell’organismo, un certo organo, un certo tipo di cellule, e si riproduce velocemente a spese dell’ospite.

Come funziona la risposta dell’organismo attaccato? In vario modo, principalmente esistono delle cellule specializzate che “si accorgono” della presenza del virus -alcuni tipi di globuli bianchi, per esempio- e “chiamano a raccolta” tutti gli apparati difensivi che, a loro volta, si occupano sia di “creare un identikit” biochimico del virus, sia di attivare la produzione di anticorpi per neutralizzare il virus.

Anche nel caso del virus HIV3 l’organismo produce gli anticorpi per contrastarlo come nell’infezione di qualsiasi altro agente patogeno. Ma le cose vanno diversamente.

Il risvolto diabolico sta nella scelta del target. Nel tipo di cellule che l’HIV3 attacca per riprodursi. Infatti le cellule che infetta sono dei globuli bianchi chiamati T-helper e sono proprio le cellule che hanno il compito di attivare la risposta immunitaria. E’ evidente che alla lunga il piccolo virus avrà la meglio sull’esercito difensivo del sistema immunitario in quanto ci si è infilato dentro. Si potrebbe dire anche che è talmente “sicuro di sé” da prendersela con estrema calma. Instaura un clima di convivenza apparentemente pacifica. E’ come se dei delinquenti si nascondessero in questura. O dei mafiosi nello Stato. O cose del genere.

Meccanismi di questo tipo sono stati presi in considerazione per costruire teorie complottiste. La teoria del complotto prevede un soggetto occulto e serve, secondo me, ad occultare soggetti palesi. Invece l’AIDS politik, cioè un tipo di politica che sfrutta il meccanismo dell’AIDS non richiede dei soggetti occulti. Caso mai dei soggetti che non si possono esporre pubblicamente. E’ differente.

E’ sotto gli occhi di tutti che non è mai esistito un partito o una forza politica espressamente neoliberista. Dal momento che TUTTI sono tenuti ad esserlo. Per ottenere questo strabiliante risultato è stato sufficiente che nessuno potesse più muovere le leve economiche della società dalla stanza della politica. Però in questo caso, che rappresenta la premessa al punto in cui siamo, sarebbe ancora possibile parlare di accondiscendenza. Siamo al margine dell’AIDS politik.

Prendiamo un esempio immaginario.
E’ facile capire come economie, più o meno criminali, abbiano bisogno di questo meccanismo. Comprare immediatamente l’antagonista. La situazione è arrivata ad un punto tale che è conveniente creare l’antagonista ad hoc per giocare sul tavolo della politica. Che è ancora lo spazio dove si muove ciò che si può mostrare.

Cosa c’è di meglio che camuffarsi con le divise del nemico, che mettersi nei panni di quello che è considerato l’antagonista. Un trucco antico come il mondo dirà qualcuno. Antico sì, ma mai così centrale come adesso. Ci ricordava Sun Tzu che: il tao della guerra è l’inganno. E l’inganno è la cifra del nostro tempo.

Il paragone tra una struttura biologica arcaica come un virus e una struttura sociale arcaica come la mafia ha una sua pertinenza, non è solo una suggestione significativa.

Per assurdo immaginiamo che le strutture arcaiche sappiano essere anche moderne (cosa che succede sempre, ma che stupisce sempre qualcuno), ma talmente moderne da rappresentare l’unico modello di impresa vincente. Immaginiamo che queste strutture arcaiche possano esistere come potentati economici in quanto fornitrici di merci e servizi.

Immaginiamo che l’economia di queste imprese si riveli talmente fiorente da presentarsi come l’unica impresa con problemi di eccesso di liquidità. Poniamo, sempre per assurdo, che servano delle imprese in grado di gestire un eccesso di liquidità “ingombrante”.

Occorre trasferire liquidità in zone tradizionalmente estranee al fenomeno mafioso. Zone anche culturalmente riluttanti. Ma asfissiate da una crisi di liquidità circolante.

Il sistema migliore per coprirsi le spalle è utilizzare i campioni di questa riluttanza culturale, in grado quindi di convogliare la reazione not-self (non del proprio: in biologia si indica così il tipo di riconoscimento che viene fatto di un corpo estraneo al proprio organismo da parte del sistema immunitario) di una popolazione per rendere possibile un’infiltrazione economica e politica. Mentre si batte sulla gran cassa della riluttanza culturale. La reazione primaria di un organismo che si sente attaccato dall’esterno è offrire potere a chi si qualifica come produttore di anticorpi.

Poniamo per assurdo di costruire un troian. Una forza politica apertamente schierata contro il nemico a cui dovrà aprire le porte.
Immaginiamo che questa forza sia capace di crescere proporzionalmente ai malumori popolari.
Immaginiamo di vivere in un’epoca in cui l’alleato si deve presentare come l’avversario e sia diventata rara la capacità di ragionamento; unico anticorpo reale.

Immaginiamo per assurdo che nel territorio in cui questa forza è più rappresentativa vengano investite enormi quantità di capitali. Immaginiamo che qualcuno faccia un calcolo in metri cubi e scopra che si è costruito per un volume enorme di edifici vuoti (edifici vuoti… c’è sempre qualcosa di strano quando si parla di edifici vuoti!)… Proprio lì dove la muraglia sembrava più alta e invalicabile. Proprio lì che si addensavano i globuli bianchi.

Questo è un caso immaginario di AIDS politik. Comunque è un esempio ce ne possono essere altri. Molti altri.

In generale: il modello vincente di impresa è l’impresa mafiosa. Anche quando non lo fosse (o addirittura non volesse esserlo), lo Stato è tenuto a fornirgli gli strumenti per esserlo in virtù della legge della competitività di mercato. La precarizzazione è la forma istituzionalizzata e attualizzata di un tipo di società mafiosa. Il procedere dell’economia sfrutta gli shock sociali per raggiungere profitti immediati e concentrare capitali e la politica viene pesantemente infiltrata di forze populiste che al servizio delle elite portano le masse al loro macello.

Uno dei risultati più drammatici dell’AIDS politik è quello di creare una paralisi politica. Cioè una paralisi del possibile, in quanto nessuna parte in gioco è più riconoscibile come reale antagonista se pure in chiave riformista di un sistema in essere. I riformisti oggi, non desiderano o auspicano la realizzazione di riforme sociali. Casomai si pongono come moderatori fra le esigenze di strozzo dell’alta finanza, più o meno criminale, e le richieste di clemenza di masse piuttosto ridotte all’isteria.

[GC :::novembre 2012:::]

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Trashware – le origini

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“La soddisfazione del bricoleur quando innesta qualcosa su una conduttura elettrica, quando devia una conduttura d’acqua, si spiegherebbe assai male con un gioco di «papà-mamma» o con un piacere di trasgressione.”
Le macchine desideranti; Gilles Deleuze, Felix Guattari

Anche con poche pagine scritte si può fare i conti con un periodo intero della nostra vita, e magari con qualche tassello della vita collettiva. A volte basta anche meno. Anche una sola frase. Una battuta. Poche righe.
Questo è scrivere: il gesto magico. E , visto che nessuno, a parte il sottoscritto e un’altra persona che in questo post sarà chiamata Hal, può fare ciò, in merito agli avvenimenti che hanno portato, circa tredici anni fa, a coniare il termine trashware per definire l’insieme di pratiche consistenti nel riassemblare elaboratori elettronici funzionanti da pezzi destinati alla discarica, lo farò.

Trashware è un neologismo coniato da me e da Hal, ingegnere chimico col pallino del software libero, ottenuto dall’unione della parola inglese trash: spazzatura e ware: componente, nel lontano 1999. Nella nostra visione si poneva come terzo termine della serie (allora molto in voga nel vocabolario comune) hardware e software. Trashware sta ha significare possibilità di mettere insieme PC perfettamente funzionanti con pezzi altrettanto funzionanti, ma resi obsoleti dalle esigenze di mercato. Che erano e sono fondamentalmente quelle della spettacolarizzazione dell’immagine e dei videogiochi.

Tutto inizia un giorno che Hal, in preda ad una rivelazione mistica post-adolescenziale, piomba in casa mia con la promessa di avere l’essenza della rivoluzione assoluta in mano e, in poche parole, mi istalla una vecchia release Red Hat Linux sul mio PC fra l’altro piuttosto riluttante a questo sistema operativo, tanto libero, quanto… ruvido.

Io, che come informatico ero e sono uno dei più scarsi dell’universo riuscivo ad intuire un qualche senso in quell’entusiasmo elargito senza il minimo ritegno nei confronti di questo sistema operativo, che poi non era solo un sistema operativo, ma un paradigma, ma un nuovo modo di produrre le idee in rete, ma… ecc ecc.

Dopo aver istallato, in maniera approssimativa, il sistema sul mio PC, Hal passò all’installazione delle idee del Software Libero nel mio cervello. Io le misi in una directory cautelativa su cui avrei riflettuto con calma in seguito. In linea di principio condividevo questo entusiasmo. Mi sembrava davvero che qualcosa di nuovo potesse succedere sulla superficie del pianeta se una cosa così strettamente detenuta dal mondo della produzione come la tecnologia fosse finita in un paradigma cooperativo. Insomma se l’informatica che allora ci proponeva contemporaneamente scenari utopici di società in grado di svilupparsi sull’accesso universale all’informazione e scenari distopici di società pienamente controllate da poteri assoluti, riusciva a deragliare… a disertare in una direzione così liberata… Ecco si poteva essere partigiani. In modo nuovo. Mi piacque l’idea del SL. Ben sapendo che si prestava a letture anche parecchio distanti tra loro, in cui, però quella libertaria era predominante e comunque era la mia.

Hal si è convinto, fin dalla più tenera età, di essere un tecnico. In realtà sa di essere un umanista dentro un corpo da tecnico. Quindi un giorno farà outing e ammetterà pubblicamente di essere un umanista con il pallino della tecnica e non solo viceversa. Questa sua perversione ha sempre fatto in modo che potessimo andare d’accordo, perché… gli umanisti con il pallino per le chiacchiere sono scarsamente tollerabili.

Ad Hal “serviva” un “ideologo”. Nel senso di qualcuno che desse corpo a qualche idea. Negli anni ’70 di ideologi ne trovavi quanti ne volevi. Ce ne era uno per ogni uscio, ma nel senso dell’ideologia però. Ce ne erano per ogni esigenza, di tutti i colori e di tutte le sfumature. Al volgere del millennio ce ne erano pochi che potessero cavare fuori qualcosa di interessante da un’idea nuova. Almeno a Empoli e dintorni. Cioè nel raggio d’azione di Hal. Insomma, la maggior parte di coloro che avevano avuto a che fare con la politica o la società viaggiava a quei tempi girato indietro, come i gamberi, emettendo qualche sospiro per i bei tempi andati (quando c’era il muro, o Craxi o non si sa chi) e sperando così di intortare qualche nuova leva, sprovveduta e fragile di nostalgia. Io, invece, potevo essere quello che ci tirava fuori qualche cosa di nuovo da questa roba. Riuscivo a capire quanto bastava di informatica per non essere considerato analfabeta ed ero in grado di riflettere sulle ricadute sociali delle nuove tecnologie. Non ero il tipo da mettermi ad urlare – Il diavolo!- tutte le volte che mi si presentava davanti un monitor acceso e nemmeno ero contagiato dagli stereotipi nerd dell’epoca che riproducevano il linguaggio di un mondo marginale e autoreferenziale. Capì bene che mi proponeva un piano d’attacco. Lui ci metteva la preparazione tecnica e io tiravo fuori qualche coniglio dal cappello. Feci un po’ lo scettico poi accettai.

La sfida era interessante e non delusi almeno in un paio di occasioni. La prima fu durante la fondazione di un gruppo Linux a Empoli, che per inciso all’inizio contava di due soli affiliati: Hal e me, e in cui tirai fuori il nome GOLEM. Acronimo che stava e sta per Gruppo Operativo Linux Empoli. Tutt’altra roba rispetto alla proposta iniziale: E-lug.
Ok, dicevo io, se il SL è un multipiano dobbiamo trovare delle parole che siano multidimensionali, non piatte come quelle del gergo informatico. GOLEM funzionò. Perché si tirava dietro tutta l’idea della materia inanimata, hardware, che veniva animata dalla parola, software. Quindi la cabbala. Quindi ci stava dentro la leggenda ebraica praghese con questo mostro che può essere cattivo, ma anche buono a seconda delle versioni. Il mostro d’argilla dalla forza sbalorditiva che vive se la parola che è scritta sulla sua fronte è emet verità e invece muore quando il rabbino che l’ha creato cancella la e trasformandola in met: morte. Emet or met. Verità o morte! Già tutto questo era molto evocativo. Poi c’era il fatto che buona parte degli appassionati di informatica, almeno allora, aveva un infogno tremendo con cabbala, esoterismo e giochi di ruolo. E ci piaque anche l’idea di evocare un gigante di fango in grado di difendere la libertà con forza sovrumana. Idea epica e giocosa insieme. GOLEM è uno scherzo serio o una serietà scherzosa. Fai te.

Il boot era avvenuto. Adesso occorreva una situazione all’altezza della situazione. Così tirammo fuori il trashware. Ecco la seconda volta in cui produssi la parola giusta: trashware. Intanto esisteva la parola, poi sarebbe esistito il trashware. Né io ne Hal avevamo mai passato un pomeriggio della nostra vita in garage a sistemare vecchi PC, anche se Hal stava mostrando tutti i segni che avrebbe imboccato davvero quella pericolosa strada.

Certo questa era già una pratica consolidata tra i nerd. Era piuttosto strano che due non-nerd come noi dessero a questa pratica uno statuto di dignità. Si trattava di una pratica privata che noi potevamo rendere pubblica. In effetti funzionò. Ma non facemmo solo questo. Fornimmo un momento di riflessione per ciò che stava accadendo davanti agli occhi di tutti e lo sintetizzammo in un giochetto.
A tutt’oggi penso che questo non era banale.

Allora lavoravo per una cooperativa che raccoglieva i materiali ingombranti per conto della locale società della nettezza urbana. Assistevo quotidianamente al riempimento dei cassoni dei materiali elettronici e pensavo che sarebbe stato possibile creare cose nuove da quella materia apparentemente morta. Quella fu la nostra prima materia. Non si trattava di una riflessione puramente estetica. Era di più che utilizzare un materiale di recupero. Era recuperare un materiale che il meccanismo accelerato del consumo aveva costretto a divenire spazzatura in tempi record. Molte delle riflessioni che ho fatto o scritto in seguito sull’argomento derivano da quell’esperienza.

Spesso ho insistito sui concetti tipo merce e spazzatura, sulla labile distinzione che esiste tra questi due termini.
Mi piace mettere in risalto che mai come oggi l’essere umano è stato circondato da una gran quantità di oggetti con cui si identifica e che è solo nei termini della relazione con quegli oggetti e che essi sono definiti merce, e quindi dotati di un ordine o spazzatura cioè dotati di disordine. Il discrimine è un certo tipo di attenzione mentale. I primi esistono come oggetti morti che vivono di rappresentazione i secondi si affacciano di nuovo alla potenzialità del kaos.

Questo offrivamo. La visione per cui tutto il mondo o tutta la rappresentazione di mondo della nostra specie cammina precariamente sul margine del kaos. Da lì a poco sarebbe stata formalizzata la società del terrore che ha la sua origine profonda in questa possibilità di ribaltarsi di ogni cosa da un momento all’altro: da oro a merda, da vita a morte, da pulito a sporco, da sicuro a insicuro, da certo a incerto e così via all’infinito.. Nightmare, il film, è stata la rappresentazione e l’anticipazione più esatta del risvolto emotivo di questa fragilità, dovuta a questo pericoloso rovesciarsi del mondo. C’è qualcosa che non si può più fare: smettere di vigilare sul nostro mondo, scivolare nell’inconscio. Basta che si apra una finestra, in quel caso il sonno, e tutto ciò che è un sogno diventa un incubo.

Oggetti come SIMULACRI (Baudrillard), svuotati di valore d’uso e dipendenti da una creatività sovversiva per essere tradotti in qualche campo di significato. Offrivamo la prova di una potenzialità di controllo. Non di una reversibilità. La spazzatura non ritorna merce. Torna qualcosa liberato dalla sua natura duale merce-spazzatura. Non torna indietro, rinasce in altra forma. In questo caso non ha più un prezzo, ma un valore. Si può regalare. Per far questo occorre creatività! Come per far vivere le parole e trasformarle in una storia, come nel disporre i colori e la luce per farli divenire una forma… Come nel fare bricolage!
Le idee stesse quelle che avevamo trovato nel nostro percorso potevano essere ri-assemblate insieme e dotate di nuovi significati. Le idee aspettavano di essere tradotte in qualche campo di significato. Le potenzialità erano enormi. Ma sono bastati un po’ di colpi di scena narrativi. Come quello dell’11 settembre o l’immiserimento delle masse e gli scrittori del sistema di dominio ci hanno messo all’angolo.
All’angolo, ma non fuori uso.

I think tank dell’epoca agirono producendo le narrazioni che avrebbero coperto le spalle al neoliberismo. Noi volevamo costruire piccole storie che andavano nella direzione opposta.

Il passaggio successivo era fin troppo scontato. Inserire su computer rimessi in sesto a solo valore umano, frutto dell’esperienza volontaria dei nuovi hacker, sistemi operativi in grado di supportarne le funzioni e persino perfettamente legali: regalare. Permettere alle persone di poter di nuovo regalare! Si tratta pur sempre di macchine potenti che messe nelle mani di individui privi di mezzi, ma ricchi di intelligenza sarebbero riusciti a esprimere le vere potenzialità. Nuovi punti di accesso ad un mondo che vuole sorpassare uomini e macchine. Regalare PC funzionanti al terzo mondo, alle associazioni, ai gruppi di volontariato…

Precisiamo una cosa. Questo era un gioco follemente serio. Ma nessuno ha mai pensato che si sarebbe potuto sostituire lo sviluppo agricolo o l’indipendenza alimentare con la donazione di computer. Non si mangiano i computer. Ogni tanto qualcuno si dava la pena di ricordarcelo, come se non lo avessimo avuto ben chiaro fin dal primo momento.
Ma la possibilità di aprire delle opportunità di conoscenza era un percorso parallelo. Creava un legame tra mondi lontani che non era solo quello dei rapporti di sfruttamento portati dalla globalizzazione. Una via di fuga.

Sapevamo benissimo che il software libero era studiato per tutto tranne che per essere user friendly su macchine poco potenti. Ma questa era la storia che secondo noi si sarebbe dovuto raccontare. Perché le macchine dell’informazione devono diventare rottami appena al pargolo della zona del consumo viene regalata la versione nuova del videogioco, ma non devono arrivare nelle mani di un ragazzino in una zona al margine del consumo, dove possono diventare mezzo di conoscenza…

Come ogni storia anche questa tirerebbe dietro a se tutte le storie del mondo . Difficile è circoscriverle le storie. Ho volutamente evitato di parlare di tutte le ingenuità, di una punta di presunzione e di qualche figuraccia che pure non ci siamo risparmiati allora. L’ho fatto soprattutto per pudore , ma anche per potermi soffermare meglio sull’origine della parola trashware che di per sé era già una sintesi, una storia.

Raccontando alla rinfusa ciò che è stato fatto e i motivi che ci hanno animato non posso fare a meno di ricordare che ci siamo tirati dietro un sacco di gente veramente assortita, brillante e curiosa. Eravamo una bella armata Brancaleone. Abbiamo passato momenti esaltati a discutere e cannibalizzare hardware. Mi torna in mente Alessandro che da sistemista esperto ha messo su i primi corsi di alfabetizzazione al SL gratuiti. Il vero linuxista Lenny che ci considerava dei pazzi; il che era tutto un programma. Lo Struzzo che pure ci forniva supporto prezioso. Pierangelo, uno dei dodici preti operai presenti in Italia, conosciuto in fabbrica, che ci offrì una stanza per iniziare ad esistere… I contatti con Ferry Byte, Simone, Leandro… Poi l’Ugolini, John Doe, Dario, Luana e tutti gli altri che sono stati più importanti delle nostre idee stravaganti per il GOLEM, ma così si cade nel binario scivoloso della nostalgia e non è questo il luogo.

Una storia anche se è fatta solo di una parola potrebbe tirare a sé tutte le storie del mondo. Come se divenisse il centro di un vortice. Un centro sempre più denso; un buco nero. Ogni storia è un buco nero. Per questo si ha paura a raccontarle le storie. Quando una storia, per quanto banale all’apparenza, è accaduta realmente essa si presenta come un complesso ordito di vissuti personali, derive, improvvisazioni, eventi casuali o presunti tali, gesta, pensieri, coincidenze e umori e di nuovo storie… Ogni storia non ha un fondo, potrebbe continuare all’infinito, richiedendo un incolmabile tributo di parole, perché fra me che sto seduto e il ticchettio della tastiera che sento adesso e gli avvenimenti di un altro tempo che sto raccontando grazie a quel ticchettio ci sono infiniti punti. Infiniti momenti e infinite narrazioni. Questo non parlare di tutto ha un senso se sono riuscito a includere dentro gli spazi lasciati vuoti tra le parole almeno un po’ di questo infinito resto e sono riuscito a far brillare per un attimo lo spirito che ci ha animato allora.

[GC :::novembre 2012:::]

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Se una mattina d’autunno un viaggiatore…

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Se una mattina d’autunno un viaggiatore fosse sceso nella stazione di una cittadina sonnacchiosa della provincia fiorentina chiamata Empoli, avrebbe trovato ad attenderlo lo stesso cielo con una gran voglia di piovere, e le stesse identiche nuvole basse e minacciose che aveva osservato fino ad allora con sguardo beatamente inespressivo dal finestrino del treno.
Sarebbe sceso da un treno che sarebbe potuto arrivare da tre direzioni soltanto: Pisa, Firenze e Siena.
Avrebbe percorso il sottopassaggio insieme a pochi altri viaggiatori, tra cui due giganti neri che discutevano tra loro in una lingua che si articolava in un gorgoglio musicale, idioma africano dalle sonorità ritmiche e timbrica nasale. Volume decisamente alto che solo a sentirlo ti spara lontano dall’Europa. Una donna dai fianchi larghi e dalla camminata pesante. Qualche giovane con lo zaino sovradimensionato a tracolla e un uomo sulla soglia della vecchiaia dall’espressione trasandata e rancorosa.

Sarebbe emerso dal sottopassaggio, sul primo binario e avrebbe incontrato pendolari di ambo i sessi odoranti di doccia, colloquiali e flirtanti, mescolati a studenti con gli occhi abbottonati e ancora non del tutto chiassosi a causa dell’ora mattutina.

Cosa c’è da sapere su quel viaggiatore? Escluderei che si trattasse di un uomo d’affari. Proprio non ne ha l’aria. Non è né giovane, né vecchio, ha un passo deciso ma non direi altezzoso. Porta degli occhiali da sole con lenti a forma quadrata, sebbene non ce ne sia davvero bisogno, degli occhiali da sole non della forma quadrata, perché la giornata è grigia e uggiosa. E’ ben vestito, ma non risalta per l’eleganza. Non è appariscente. Segni particolari nessuno. Non porta colori sgargianti. Ciò nonostante si nota. Suo malgrado quasi, verrebbe da dire.
Tira dietro di sé un trolley. Quello che lui sta trainando è rosso con le rifiniture nere. Non è un bagaglio di grosse dimensioni e le ruote al passaggio sulle mattonelle in cemento emettono un chiasso monotono che si può associare al viaggio con la stessa facilità con cui ci si sente autorizzati ad associare il profumo del caffè al risveglio.

Una volta dentro la stazione getta un’occhiata distratta alle civette dei giornali. Due quotidiani locali e uno nazionale.
Su quello di un giornale locale c’è scritto a titoli cubitali:
EVADE DALL’OPG
E subito sotto, sempre della stessa dimensione:
INTERNATO: CERCÒ DI UCCIDERE
UNA RAGAZZA CON LA BALESTRA.

Il viaggiatore non sembra stupito e avrai già capito che non mostra nessuna espressione particolare sul volto. Indifferente?
Prosegue il suo cammino, ma dopo pochi passi si ferma.
Una bionda alta con un vestito color crema con piedi e polpacci inseriti in stivali dai tacchi rumorosi passandogli accanto gli offre uno sguardo fuggevole d’interesse da dietro i vistosi occhiali da vista D&G. Lo classifica come preda potenziale e prosegue oltre.
Ma lui, il viaggiatore, non deve nemmeno essersene accorto.
Non è molto alto. Decisamente media statura, capelli castani chiari tagliati molto corti e il volto rasato. Non è bello, ma nemmeno brutto.
Adesso si volta e posa di nuovo lo sguardo sul titolo del giornale. Poi torna davanti alla civetta e osserva.
C’è un omicida in giro? No, c’è in giro un tentante omicida. Piuttosto originale tentare di uccidere qualcuno con una balestra. Un oggetto non comune. Non te lo trovi accanto per caso tanto spesso.
A cosa deve la vita quella ragazza? Alla cattiva mira dell’evaso? Alle cure azzeccate e al prezioso pronto intervento medico?
“Tentò” significa che il fatto coincide col motivo per cui è stato rinchiuso dentro l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario. “Tentò” di per sé dice poco su quello che può essere successo. Un ferimento forse.
Certo non fugge tutti i giorni da un manicomio criminale uno che ha ferito o tentato di ferire una donna con un’arma molto più comune nel medioevo di quanto lo sia oggi.
Se fosse ossessionato dalle armi medioevali, la popolazione non avrebbe molto da temere. Non ci sono molte balestre in giro in questa cittadina di provincia. Certo questo è poco come garanzia. Ma la realtà di solito è diversa da quello che vediamo nei film dove il movente dell’evasione è la reiterazione dei crimini.
Chi evade, pensa a scappare e di solito lo fa per motivi emotivi (tra cui la noia). Non di rado chi evade da un manicomio criminale lo fa prima della scadenza della pena, affinché gli venga prolungata la permanenza dal giudice. E’ comune che si tratti di persone sole senza nessuno che si possa occupare di loro fuori dal carcere.
Che sia lì per quello il viaggiatore? Non si sa niente del rapporto che può esserci tra quel viaggiatore e l’autore di quel gesto. E il fatto che si sia fermato per leggere quella civetta non aggiunge niente a ciò che non sappiamo.
Forse è uno sceneggiatore, perennemente in cerca di soggetti e di storie che quel giorno si è trovato casualmente a passare da quella stazione per motivi che non c’entrano niente con il titolo del giornale e sta già immaginando come inserire quella cosa nel suo lavoro. Prende mentalmente appunti. Magari si immagina che l’evaso adesso stia andando a riprendere l’arma nascosta prima della fuga fallita che si è conclusa con il suo arresto. Mosso da un oscuro sentimento di vendetta verso persone e storie che ancora non conosciamo…

Dopo un lungo momento riprende a camminare verso l’uscita che sbuca sul parcheggio nella piazza della stazione.
Si ferma poco oltre la soglia.
A quel punto gli si avvicina una donna con occhiali avvolgenti e lenti fumé, osserva il trolly e tentando di non farsi notare, gli sussurra con un filo di voce: –Zenone di Elea– poi si dirige verso il distributore di sigarette. La donna finge di non trovare la tessera sanitaria. Si fruga. Ha molte tasche nel suo corto giubbetto nero. Continua a frugarsi.
Finalmente il viaggiatore si avvicina alla donna. A questo punto lei gli dice:-Hanno ammazzato…-
-Lo so.- Interrompe lui.
-Va via allora.-
-E…-
-Portalo con te. Non vogliamo saperne niente adesso. Prendi il rapido delle undici.
-Ma non ferma qui.-
-Fermerà. Va’ al marciapiede sei. All’altezza del merci. Hai cinque minuti.-
-Ma…-
-Fila o devo arrestarti.-
Non si dicono altro. L’uomo torna sui suoi passi senza mai voltarsi e sparisce velocemente dalla stazione.

[GC ::: 2008 ::: Tributo a Italo Calvino ::: Progetto web – Il demone che Consigliò Socrate]

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Fase ultraparadossale

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Pavlov era affascinato dall’”idea degli opposti”. La si potrebbe definire un ammasso di cellule, localizzate in un punto imprecisato della corteccia cerebrale. Queste cellule servono a distinguere il piacere dal dolore, la luce dall’oscurità, il dominio dalla sottomissione… Però quando in qualche modo l’idea degli opposti viene indebolita nei soggetti studiati -facendo patire loro la fame, traumatizzandoli, percuotendoli, castrandoli, facendoli passare in una delle fasi transmarginali, oltre i confini del loro io cosciente, oltre la fase “di pareggio” e la fase “paradossale” -all’improvviso ci si ritrova con un paziente paranoico che vorrebbe essere un padrone eppure si sente uno schiavo… che vorrebbe essere amato però soffre per l’indifferenza del mondo. “Io credo sia proprio la fase ultraparadossale”, scrive Pavlov a Janet, “a indebolire l’idea degli opposti nei nostri pazienti.” Pazzi, paranoici, maniaci, schizoidi, idioti in senso morale…

Thomas Pynchon -L’arcobaleno della gravità- p.68

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La produzione artistica nell’epoca della spazzatura

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Trash – La produzione artistica nell’epoca della spazzatura

Una delle pochissime produzioni che non è interamente subordinata alla dimensione digitale è la produzione di oggetti da altri oggetti caduti in disuso. Trash. Si tratta certamente di un atto di creatività artistica e come tale dotato di indubbio fascino. Il materiale di partenza ha richiesto una notevole quantità di informazione digitale nel precedente ciclo vitale, quando gli oggetti non ancora purificati dall’obsolescenza, dovevano ostentare la sensualità della merce. Sensualità che evapora insieme all’immagine nel trapasso a materia “Trash” restituendo gli oggetti ed i segni ad una dimensione dove emerge un maggior grado di realtà rispetto alla produzione industriale diretta. Dimensione di nuovo, in gran parte analogica, quasi che la sostanza digitale, evaporata per condensarsi in profitto, in qualche altrove lasciasse sul campo le spoglie mortali. Relitti. Ma nuova materia prima. Nuove partenze. Rianimare questa materia è operazione che comporta un delicato soffio creativo nella sua versione positiva e allo stesso tempo una resa di fronte allo strapotere della merce.
Non si ha a che fare soltanto con la messa in corto circuito dei codici estetici prodotti dal capitalismo, ma anche della consapevolezza di inserirsi nella sezione marginale e periferica della produzione di quei codici.
Senza disincanto è impossibile vedere che non si tratta di un -fuori- ma l’operazione rimanda ad un -fuori-.

In ogni caso tutte le polemiche sull’arte finiscono quando mancano i compratori.

[GC ::: 2010 :::]

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Come te la immaginavi l’Europa?

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Pensavo all’idea che da piccolo avevo del mondo negli anni dopo il 2000. Mi immaginavo che ci saremmo spostati su vetture senza ruote, in grado di bilanciare la forza di gravità e di muoversi come dischi volanti. Mi immaginavo che avremmo sviluppato una tecnologia che permettesse a chiunque la comunicazione telepatica. E cose del genere.

Non credevo che nel 2012 avremmo viaggiato ancora sopra delle automobili con motore a scoppio, bielle, cilindri, frizione e tutto il resto. Più silenziose e tecnologiche di prima, ma sempre automobili, come quelle che vedevo io da piccolo e che avevano conosciuto anche i miei nonni. La fantascienza non aveva visto oltre, aveva visto altro.

Così l’Europa. Come te la immaginavi l’Europa unita?
Io me la immaginavo un po’ diversa dall’Europa che c’è ora, che assomiglia parecchio a quella che c’era prima, ma con una moneta unica che ha sostituito le monete nazionale e le sbarre alzate alle dogane. Invece non è nient’altro che questo. E un po’ mi delude come le automobili al posto dei dischi volanti.

Non so. Mi immaginavo scioperi che bloccano simultaneamente tutto un continente… oppure persone che viaggiano come se si trattasse di spostarsi dentro la propria regione. Mi immaginavo la possibilità di viaggiare in treno quasi gratuita, soprattutto per spostarsi verso gli altri paesi. L’interrail alla portata di chiunque (reminescenze di gioventù)… Poi mi immaginavo che accendendo la TV si sarebbero potute vedere tutte le altre principali televisioni europee. Magari con tanti programmi sottotitolati, così avremmo imparato un sacco di lingue e se la nostra TV nazionale trasmetteva solo merda avremmo potuto mettere il programma di approfondimento della BBC o, per i più piccoli, il programma per i ragazzi della TV Svedese… Tutto questo me lo immaginavo pubblico. Senza abbonamenti. Invece ci sono mille canali. Ma ancora più piccoli, ancora più locali di prima. Vuoi per zona geografica di riferimento o per restringimento degli interessi (la TV del poker non me la immaginavo).

Le lingue. Che bello, pensavo da piccolo, vivere in un paese dove ci sono tantissime lingue e le puoi imparare tutte. Mi immaginavo che i corsi di lingua, a tutti i livelli sarebbero stati gratuiti… se non addirittura obbligatori! Niente. Mi sbagliavo anche su questo. Me ne accorsi qualche tempo fa quando, ingenuamente chiesi in un centro per l’impiego, se esistevano corsi di inglese o altri corsi di lingua? Silenzio. Gelo. No, sì, ma, però… Cioè, ci sono. Ma pagando, s’intende. In scuole private.
S’intende s’intende… avete presente quanti soldi sono finiti nella formazione in Toscana. Boh, io lessi la cifra su un giornale, però me la sono dimenticata. Era roba grossa. Molto grossa. Per un decennio piogge monsoniche di finanziamenti europei. Sì europei. Mi sarei immaginato, in primis, coi soldi europei sarebbero stati istituiti tanti corsi gratuiti di lingue europee, per tutti. Macché quelli si pagano di tasca propria. Invece c’è stato un periodo che avresti potuto fare un corso di costruzione di capanne con tronchi di bosco finanziato dalla regione coi fondi europei. Bella roba.

L’Europa si è unita, in qualche modo, ma si è ristretta. Quasi fosse una volontà di mantenerci isolati dentro le nostre barriere linguistiche. Sempre più piccole fra l’altro. Sarà anche un caso, ma io al caso non ci credo, soprattutto quando torna utile a qualcuno. Di cosa stiamo parlando di costruzione di ghetti open space? Forse.

In ogni modo mi immagino che un tizio sconosciuto dopo aver messo la prima banconota da dieci euro sul tavolo, e dopo aver guardato tutti gli altri presenti negli occhi abbia pronunciato una frase del tipo: l’Europa è fatta, adesso stiamo attenti a non fare gli europei.

E’ bello avere immaginazione.
[GC :::ottobre 2012 :::]

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Astici astiosi

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Gli astici astiosi (per tacer delle aragoste)

Sono così abituati a pensarsi furbi, acuti e persino intelligenti i pargoli della cultura media. Addestrati in tenera età a tenzoni verbali & freddure & frasette veloci & metacomunicazione & occhiatacce & duecoglioni. Tutto un corollario di colpetti sotto la cintola e qualche discorsone intorno ai massimi sistemi lasciato cadere qua e là a stonfo & tanfo & su cui vale il principio assoluto di non approfondimento. Fanno politica nel peggiore dei sensi anche quando giurano di sputarci sopra.

Il tafferuglio verbale rifugge la parola scritta, che non lascia scampo, che richiede riflessione, che pu ò essere sospesa in qualsiasi momento per assenza di dignità. Invece la teppa intellettuale si abbina così bene al becerismo da cui prende le distanze, come un bianchetto fresco si abbina agli spaghetti allo scoglio.

Poi ci sono quelli al top. Gli eletti, i campioni in piccolo dell’anti-sistema. Le piccole star dello stare contro. I forzati della socievolezza. Prezzemoli su ogni pietanza. Un piede qua e un piede là, che tanto amm’a campa’. Che hanno fatto girare cos ì bene le loro conoscenze, le tiepide raccomandazioni, le “amicizie”, le innocenti prostituzioni per guadagnare una posizione peraltro un po’… inadeguata all’ambizione (che peccato).

Le elités di noialtri. Così stizzite nell’incontrare qualcuno che la realtà riesce a coglierla e descriverla sul serio. Sì, bene o male ci riesce. Invece tu, Astice, maturi rancore per la tendenziale caduta del valore d’uso della prestigiosa immagine che hai di te. Che ingiustizia. Che spreco di talento quando altri mostrano di sapere o saper fare . Che li portino via. Almeno non se ne accorgerà nessuno.

Ultima, ma, purtroppo, non ultima, c’è la maggioranza che solo quello sa fare. Senza un motivo particolare. Arriva lì.

E’ dura fare i conti con le bollette, le telefonate che non arrivano & tutto il resto. Ma dover fare i conti col talento che si credeva di meritare e che invece, giustamente, è andato altrove, deve essere terribile. Non mi ci far pensare.

Astice astioso, concludo dedicandoti quasi un verso libero e giocoso: Oh tu. Astice astioso. Che ti muovi in manovre oscure, stai lì ad astiarmi e ti ritieni astuto. Astieniti dal restare e nel tuo astio stiantaci pure!

Gianni :::2012:::

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Vecchi appunti sullo spettacolo contemporaneo

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La religione, oggi come oggi, è la cocaina dei popoli. – Hal

Appunti del 2011.

Osservazione. Il capitalismo in quella che potrebbe anche essere la sua ultima fase spettacolare non può più tollerare di essere riconosciuto come nemico da nessun individuo ragionevole.

Adesso è in grado di integrare, con estrema velocità, gli arcaismi esistenti in modo più o meno organico nominandoli, a vario titolo, propri nemici. Questo rapporto non può venire mai realmente messo in discussione per gli eccessi dei singoli episodi oppure a causa della ferocia dei mandanti ed esecutori.

Il cuore stesso della irrealtà, dopo aver eliminato dal piano dello scontro i propri nemici reali, impone a chiunque sia dotato di un barlume di ragionevolezza di essere difeso dai nemici che egli stesso ha scelto come tutori.

Le uniche alternative che si producono nella cornice contemporanea prevedono il superamento reazionario anche delle libertà formali che il capitalismo tollera. Questo è il capolavoro del capitalismo; produrre la pseudo-alternativa a se stesso. Esso si presenta come margine progressivo di un mondo che scivola costantemente nella barbarie e nella regressione. Produrre il proprio nemico. Il capolavoro in questo senso è ciò che divenuto famoso col nome di islamismo. Il margine perfetto; un baratro anti-moderno a consumo di un sistema rimasto a corto di nemici ideologici. Perfetto perché a differenza delle burocrazie collettiviste realizzate esso non può realizzarsi; sebbene sia in grado di mobilitare e tenere occupate masse enormi partorisce strutture subalterne al nemico ufficiale. Montagne terrificanti che partoriscono topolini. L’irrealizzabile che rappresenta passioni prespettacolari, ma che può soltanto chiedere un posto allo spettacolo realizzato.
Nemico perfetto perché interclassista; non cerca amici o alleati al di là del muro ideologico con cui delimita se stesso. Perfetto: è in grado di generare un permanente stato di terrore in tutte le classi sociali; mantenere attivamente in conflitto i consumatori mancati dell’area islamica con quelli deprivati di potere d’acquisto dell’area occidentale.
Un progetto raffinato di controllo che potenzia la dispersione.
Le masse chiamate a costruire dal basso questo progetto reazionario,restano appiattite tra il “parere dell’astrologa” e l’obbligo del velo e rivolgono il loro televoto, ad oriente come ad occidente, su quello che riescono a concepire come il male minore.

La sensazione assoluta e onnipresente di poter soltanto retrocedere incombe.
Nemici a focale corta per addestrare l’occhio alla miopia.
Il diavolo; ancora il diavolo.
Non è più possibile schierarsi in nessun partito del diavolo. Quello spazio non è più libero da un pezzo ormai.
E’ stato colonizzato con meticolosa precisione.
Il partito del diavolo ha chiuso i battenti. Il tesoriere è fuggito con la cassa.
Il diavolo non esiste! Ma…

Le telepredicazioni satellitari delle confraternite islamiche sono un capolavoro: pubblicizzano un sistema la cui soglia emergente è un arcaismo tecnologicamente attrezzato, ma non ad un grado tale da potersi affermare come alternativa in un mondo così interconnesso. Piuttosto è capace di intercettare i flussi di rancore e aspirazioni deluse e capitalizzarli senza sosta. Un nemico per niente minoritario, irriducibile, irrazionale, delirante, fobico. Così gestibile.
La libertà individuale appare accettabile nel baratto con l’accettazione rassegnata alle istituzioni del capitale e dello spettacolo. Le uniche in grado di offrire un servizio di protezione globale.
Se vuoi restare, almeno parzialmente libero, dovrai cercare rifugio sotto il movimento della merce. Tutto quello che potrai chiedere è che una parte di libertà di cui sono titolari merci e capitali venga concessa anche ad alcuni esseri viventi. E tu puoi ancora far parte di questi privilegiati. Arruolati, i posti sono limitati.

Il progetto del nemico islamico è stato incubato nella cornice della lotta al blocco sovietico per poi subire numerose variazioni sperimentali nelle singole aree geografiche.
Il “lassaiz faire” israeliano nei confronti dei finanziamenti alle componenti islamiste nei territori occupati, che hanno permesso la disgregazione della società palestinese, la deriva religiosa e l’isolamento internazionale.
L’appoggio americano a quello che è stato poi ribattezzato “il principe del terrore”, passando per la situazione algerina e per mille altri tasselli di un mosaico che si ricompone nell’immagine di un nemico ideale, fragile, globale e terrifico. Il nemico di tutti gli occidentali, nessuno escluso. Il nemico delle emancipazioni e delle moderne condizioni di vita. Il debutto spettacolare in società è avvenuto l’11 settembre 2001. Da allora, sebbene nessuno vi creda realmente, tutti  partecipano al gioco, ognuno nel ruolo permesso. L’entrata in scena del nemico perfetto per una società che pretende di essere giudicata più per i propri nemici che per ciò che realizza e che quindi non è più tenuta a realizzare niente.

Una versione curiosa di questo progetto si è mostrata di recente nella così detta rivoluzione libica, quando l’apparato militare dei paesi consumatori di petrolio si è mobilitato in fretta e furia per rovesciare militarmente il regime, adducendo, di fronte all’opinione pubblica internazionale, un generico discorso sulla democrazia (opinione pubblica del tutto distratta, disinteressata e incapace di formulare il benché minimo pensiero critico una volta agitato il feticcio del male minore). Con spiazzante candore i commentatori politici di fronte alle parole dei leader che, davanti a folle festanti, proclamavano l’istituzione di una quasi- repubblica islamica, docile con le forniture di petrolio, sulle sponde del mediterraneo e la sharia come principale legge dello Stato non hanno battuto ciglio. Gli stessi commentatori pronti a vedere un pericoloso militante salafita in ogni magrebino senza il permesso di soggiorno.

Coi petrodollari si costruiscono moschee in tutto il mondo islamico e fuori da esso secondo un modello di controllo che vede i capitalisti del petrolio nel ruolo di finanziatori.
Mutatis mutandis, non è troppo differente l’utilizzo della penetrazione delle sette protestanti in molti paesi dell’america latina, finanziata e appoggiata al fine di dividere le comunità. La religione si presenta come il maggior arcaismo spettacolarizzato attualmente in onda.

L’importanza assunta oggi dal discorso religioso-identitario non è in contrapposizione con la famosa frase di Marx che paragona la religione all’oppio dei popoli, ma del tutto in sintonia con essa.
E’ il valore stupefacente della religione a permetterne il rilancio sulla scena mondiale, e non certamente una qualsiasi crescita spirituale, che era e rimane marginale rispetto alle esigenze analgesiche e allucinatorie delle masse e alla spendibilità in termini di potere delle elite.

Messo in antagonismo con il sistema di erogazione del piacere del consumo, l’islamismo fornisce agli esclusi di questa distribuzione la versione atroce di Dio. L’antiutopia di una società non secolarizzata ed asessuata coincidente con l’infanzia. Una fase della vita che ritorna esaltata in ogni forma di miseria.
Così Dio viene ridotto ad un idolo protettore di ogni forma di stupidità, rozzo e crudele e proprio per questo in grado di fronteggiare a parità di intensità la fornitura immediata di piacere della merce attraverso l’accesso ai bassi istinti eccitati dalla repressione sessuale travestita da ritorno all’innocenza. L’alternativa allo spettacolo dominante non è la realtà, ma uno spettacolo ancora più deprimente.

Non avrai altro nemico al di fuori del mio.
Mafie, corruzione, integralismi religiosi si presentano sulla scena come -nemico pubblico numero uno-, ma continuano ad esercitare la funzione occulta di prestigioso garante per un sistema che, a questo punto, preferisce fare un passo indietro e non proiettare alcuna aspettativa in nessun futuro, e presentarsi come -ordine irrealizzato-.

L’immagine più verificabile è quella di un meccanismo rotto, che chiede di essere continuamente aggiustato e rimesso in moto per portare a termine la propria missione. Un meccanismo che più si rompe, meglio funziona.

[GC :::2011:::]

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I fascisti greci

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Perché  ieri ho postato in bacheca fb il link di un articolo sul movimento fascista greco Alba Dorata? Me lo sono chiesto per il semplice motivo che di solito non passo articoli che hanno per oggetto i movimenti di estrema destra europei.

Per quanto spregevoli possano essere i neofasci o neonazi, io li trovo anacronistici e anche là dove prendono consensi a due cifre finiscono per fare il partitino del livore per una legislatura o due e poi si sgonfiano. Tipo in Olanda. O nel nord Europa in genere. Non dico che non siano un fenomeno sociale preoccupante, dico che si tratta però sempre dello stesso fenomeno e che tale fenomeno rimane politicamente marginale. Una deriva che rompe i coglioni, ma che non può avere altre realizzazioni.

In altre parole: io non credo che i neofascisti romeni o italiani realizzino il neo-fascismo in Italia o Romania. Tantomeno in Olanda o in Danimarca. Abbiamo già tutta la dittatura di cui abbiamo bisogno.

Raccolgono consensi negli strati più emarginati e poveri della popolazione come nella piccola borghesia risentita e schiacciata dalla crisi, ma restano relegati nell’ambito della nevrosi politica. Nessuno, compresi i loro leader, ha in mano uno sbocco storico.

E allora? Niente, mi sono sorpreso con quel copia-incolla e mi sono chiesto: perché Alba Dorata mi incute un timore diverso rispetto agli altri?

Sulle prime non ho avuto risposte, poi ho pressato un po’ il mio inconscio per vedere cosa emergeva.

Ho ottenuto risposte parziali e frammentarie, ma che ritengo interessanti almeno quanto basta per condividerle. Eccole: la Grecia è l’ultimo paese europeo ad esser approdato ad una dittatura di tipo militare reazionario (dittatura dei colonnelli 1967-1974). Roba recente.

Nonostante le vicinanze evidenti tra il regime dei colonnelli e l’ideologia neofascista in quegli anni è interessante la definizione di nasserismo di destra che è stata associata alla dittatura dei colonnelli.

La Grecia vive la situazione che tutti conosciamo dai media, ma, a differenza dei paesi europei, dove l’avanzata dell’estrema destra avviene come margine della contrazione dei movimenti di sinistra e popolari, in Grecia questa sta avvenendo contemporaneamente. Questo è un pericolo. Non è un caso che il leader di AD abbia dichiarato che se non è a questa tornata elettorale sarà alla prossima che diventeranno il primo partito del paese.

Torniamo alla storia. Le dittature di destra sono avvenute in una cornice di conflitto con le potenze angloamericane. La Grecia dei colonnelli, per motivi di aperto schieramento anticomunista, era nella NATO.

L’ingovernabilità del paese pesa come un macigno, sulla testa dei greci. O forse meglio dire: la governabilità a senso unico secondo i dettami della BCE e degli organismi della finanza internazionale.

AD è il primo partito estremista di destra che si pone APERTAMENTE l’obiettivo di infiltrarsi fino alla fusione con esercito e polizia. –Gli altri gruppi neofascisti europei per quanto ambiscano a ciò hanno ottenuto risultati parziali. I reparti schierati a Genova erano composti in gran parte da agenti politicizzati da ideologia neofascista, ma questo non significa che le questure sono controllate dai neofascisti. E lo sappiamo tutti. Alcuni all’interno dello Stato sono più bravi ad usare i neofascisti di quanto questi lo siano ad usare lo Stato. Non che ciò sia bello, intendiamoci.- Invece AD, si pone proprio sul piano di milizia parastatale. E pare ci stia riuscendo.

L’estrema destra è l’air bag del capitalismo, non è attiva finché non ha qualcuno a cui vendere servizi. Temo che questa condizione si possa verificare in Grecia meglio che altrove. Magari contrattando la rinuncia alle parole d’ordine “più pesanti”.

Non traggo conclusioni e sarei ben felice di sbagliarmi.

[GC::: ottobre 2012::]

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